Harkis, figli della vergogna

di claudia

di Rossella Spina

Migliaia di giovani di origine algerina pagano sulla propria pelle le scelte dei loro padri che durante la sanguinosa guerra d’indipendenza combatterono nelle file dell’esercito di occupazione francese. In Algeria non possono vivere perché considerati traditori. In Francia sono cittadini di terza classe, figli di un passato coloniale tuttora imbarazzante e che alimenta rancori e tensioni

Fatou Diome, scrittrice senegalese naturalizzata francese, nel suo libro La Préférence Nationale, dove analizza le nozioni di identità nella Francia contemporanea, afferma: «Quando si ha il naso di Cleopatra e la pelle di Anna d’Austria, non si sente il razzismo di Francia come con la pelle di Mamadou». Il volto di ognuno di noi ci rimanda alle nostre radici. La nostra pelle è anche l’insieme delle pelli che si sono sommate nel passato per creare quella che noi abbiamo e che presentiamo al mondo.

Non bisogna di certo andare negli Stati Uniti per subire il razzismo. In Francia si chiamano délits de faciès,cioè atti razzisti subiti, spesso da parte della polizia ma anche in ambito lavorativo e sociale, perché si porta una pelle “sospetta”, troppo “scura” per essere “gallica” o che rimanda a un passato coloniale non ancora risolto. La maggior parte di questi atti razzisti, si sa, è subita dai figli e dalle figlie di immigrati maghrebini e dell’Africa subsahariana. Meno conosciuta è la ferocia razzista sperimentata dai figli e dalle figlie dei cosiddetti harkis, nome spregiativo che indica gli algerini che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso combatterono a favore della potenza coloniale, la Francia, voltando le spalle ai connazionali impegnati nella guerra di liberazione.

Nessuna riconoscenza

L’esercito di occupazione arruolava militari nella colonia algerina (un po’ come fece l’Italia con gli Ascari, reclutati tra i somali, gli etiopi e i berberi). Gli harkis erano oltre 200mila. Sul fronte opposto, i partigiani – chiamati mujahid – erano entrati in clandestinità per combattere per il Fronte di Liberazione Nazionale che aspirava all’indipendenza. Alla fine della sanguinosa guerra di liberazione (costata la vita, secondo le autorità algerine, a un milione e mezzo di persone), almeno 60mila harkis furono massacrati in patria (ma secondo alcuni studiosi, il numero delle vittime è largamente sottostimato) – con l’infamante accusa di tradimento e collaborazionismo – e la quasi totalità dei superstiti fu costretta a emigrare.

L’accoglienza in Francia non fu delle migliori, tanto che fino all’inizio degli anni Ottanta migliaia di harkis furono segregati in “campi” dove dormivano in tende da campeggio in condizioni terribili. Basti pensare all’atroce campo di Bias nel Sud della Francia. Ignorati dal mondo e dal Paese per il quale avevano combattuto – e che negava loro riconoscenza – gli harkis finirono relegati ai margini della vita sociale. Chi non stava nei campi cercava di nascondere (con poco successo) il proprio passato.

Ancora oggi i figli e le figlie di harkis – stimati in oltre 42 mila – patiscono sulla loro pelle le “colpe dei padri”. In Francia sono considerati cittadini di seconda categoria. In Algeria, figli di traditori. Rispetto ai figli di immigrati economici subiscono un razzismo ancora più crudele. Vivono come fantasmi, ricordi viventi di un passato coloniale che crea tuttora imbarazzi e alimenta rancori e tensioni.

Sul tema si può leggere (in francese) il libro di Rossella Spina Enfants de harkis et enfants d’émigrés. Parcours croisés, identités à recoudre, Karthala, 2012.

Questo articolo è uscito sul numero 2/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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