Henri Teissier, una vita con i fratelli algerini

di Pier Maria Mazzola
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È morto una settimana fa, all’età di 91 anni, l’arcivescovo emerito di Algeri. Fin dalla gioventù mons. Teissier aveva fatto dell’Algeria, di cui aveva anche la nazionalità, la sua patria d’elezione, e del dialogo della vita con il mondo islamico la sua passione. Ha vissuto sul posto anche i tragici anni Novanta. Pubblichiamo il ricordo che di lui ha fatto il quotidiano cattolico francese.

Mons. Henri Teissier ha vissuto la sua Pasqua martedì 1° dicembre, al mattino presto. Sorpreso il giorno prima da un infarto nel piccolo appartamento che occupava da due anni a Lione, era stato ricoverato nel reparto rianimazione dell’ospedale Edouard Herriot.

Padre Christian Delorme, le sue nipoti Isabelle e Caroline e suo nipote Jacques l’hanno vegliato tutta la notte, recitando per lui e con lui la preghiera d’abbandono che gli era cara. «Immaginiamo il bell’incontro con fratel Charles (de Foucauld), il beato e futuro santo di cui oggi si fa festa in cielo», ha scritto nel suo ricordo mons. Paul Desfarges, attuale vescovo di Algeri. «Una strizzatina d’occhio del cielo alla nostra Chiesa d’Algeria, la cui storia deve tanto a padre Teissier, dalla guerra di liberazione all’indipendenza del Paese, dalla traversata del decennio nero fino ad oggi».

Da quell’estate del 1951…

Vero monumento della storia dell’Algeria e della sua Chiesa, Henri Teissier aveva dovuto decidersi ad abbandonare Algeri, città nella quale aveva vissuto fino all’autunno del 2018 e che era solito percorrere a tutta velocità, al volante della sua piccola macchina, nonostante la scorta della polizia. Qui era a casa sua più che in Francia; ma non riusciva più, a 89 anni, a tenere lo stesso ritmo. «Non posso rimanere, visto che non riesco più a spostarmi», diceva a chi domandava della sua partenza. Era tornato spesso, su invito di amici, per un matrimonio, un funerale o una celebrazione, oppure per un evento ufficiale.

Ad Algeri ha trascorso la parte essenziale della sua vita, dopo quell’estate del 1951quando, grazie all’aiuto di padre René Laurentin, effettua uno stage di un anno in una fabbrica di pareti prefabbricate vivendo nella parrocchia di Hussein Day. L’obiettivo è di verificare la solidità della sua vocazione. L’esperienza è decisiva: il parroco è padre Jean Scotto, pied-noir (figlio di francesi che vivevano in Algeria) e impegnato a fianco degli algerini (figura straordinaria, che ha preparato la Chiesa a vivere in Algeria dopo l’indipendenza, NdR).

Qui conosce Pierre Chaulet, un medico che si impegnerà a fianco del Fronte di Liberazione Nazionale, e Marie-Thérèse Brau, fondatrice di una trentina di centri di formazione per giovani disabili che oggi riposa a Marsiglia… Vicini tra i vicini, uniti dallo stesso amore per l’Algeria e gli algerini.

Fratelli tutti

Dalla sua ordinazione, nel 1955, il giovane Teissier non ha che un desiderio: tornare in Algeria. Inizia a studiare l’arabo all’Inalco (Institut National des Langues et Civilisations Orientales) mentre è in seminario, e va a perfezionarsi al Cairo. Nel 1958, arriva come prete ad Algeri. Viene nominato parroco a Belcourt, una comunità dove vivono circa 20.000 cristiani. «Patronato, coro, Aco, Aci, scout, catechismo…»: ha circa 40 gruppi da seguire. È la grande stagione dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle di Gesù, che scelgono una vita povera in mezzo agli algerini, «e formano una comunità che porta il popolo nella sua preghiera». Ai suoi occhi, un modello di vita evangelico.

Non ha mai compreso le critiche o le prese in giro che gli venivano dall’altra parte del Mediterraneo, dove alcuni sostenevano che era «troppo tenero». «Ho accompagnato catecumeni al battesimo, e con grande gioia. Ma non abbiamo proprio niente da fare per il rimanente 99 per cento della popolazione che è musulmana? Il Regno non lo si costruisce solo dove si “fanno dei battezzati”, ma dove si lavora per l’umanità», affermava. Secondo Teissier, ed è quello che ha vissuto pienamente nel suo Paese di adozione (ha ottenuto la nazionalità algerina nel 1965 insieme al cardinale Léon-Etienne Duval), «il messaggio evangelico deve trasformare le persone e le società». Di conseguenza, lo si vive dovunque, «nei campi, all’ospedale e nelle fabbriche». E nei suoi primi quattro anni in parrocchia s’impegna inesausto al fianco del cardinale Duval.

Restare dopo l’indipendenza

Dopo l’indipendenza e la partenza della quasi totalità dei suoi cristiani, Teissier fa la scelta di rimanere. C’è tutto da ripensare e da ricostruire, con i cooperanti stranieri. Il cardinale lo incarica di fondare un Centro diocesano di studi linguistici e di pastorale per accompagnare i cristiani alla scoperta della cultura algerina. Prima del suo trasferimento ai Glycines, qualche anno dopo, il centro è insediato a Kouba, al seminario maggiore, il quale accoglie una manciata di studenti, tra i quali Guy Gilbert. «Dovevo insegnargli l’arabo, ma in realtà lui correva ovunque», diceva sorridendo al ricordo dell’atteggiamento vivace e ribelle del giovane seminarista, che gli costerà un’espulsione nel 1968.

È in questo periodo che nasce, grazie a un manoscritto trovato presso un amico, una delle più grandi passioni della sua vita: quella per l’emiro Abdelkader, al quale per breve tempo sognò di consacrare una tesi in storia. «L’Emiro era impegnato nella ricerca di un dialogo islamo-cristiano, e quel testo che me lo rivelava era stato scritto nel 1849, ovvero un secolo prima che questo dialogo diventasse un tema comune. Per questo mi interessai tanto a quel manoscritto», spiegava nei convegni e nei suoi interventi sulla stampa algerina. Nel 2018, per il suo impegno, gli è stato conferito il premio per la pace intitolato proprio all’emiro Abdelkader. Consegnando il premio, il ministro della Cultura ha sottolineato che l’impegno di mons. Teissier in Algeria «ha contribuito alla comprensione e all’amicizia tra i popoli».

Di fatto, Henri Teissier può essere considerato algerino, per le innumerevoli amicizie algerine, e insieme un vero pilastro della sua piccola Chiesa. Nominato vescovo di Orano nel 1972, diventa ausiliario di Algeri nel 1980, a fianco del cardinale Duval, al quale succede come titolare dell’arcidiocesi di Algeri nel 1988. Anche in questo ruolo cercherà sempre di mettersi al servizio del suo Paese adottivo che, dopo l’indipendenza, era alla tormentata ricerca di una sua identità, di un avvenire politico, di un progetto comune.

Aveva da poco finito di raccogliere delle testimonianze su questo periodo di fermento e interrogativi. Il risultato – L’Église et les chrétiens dans l’Algérie indépendante, un volume che contiene una sua prefazione – viene ora pubblicato dalle edizioni Karthala, quale eco lucida di una ricerca appassionata e mai conclusa.

Una testimonianza per la Chiesa universale

È come arcivescovo di Algeri che Henri Teissier si trova immerso nella tempesta della violenza islamica che flagella il Paese. È lui che accompagna personalmente ciascuno dei suoi cristiani nel discernimento: partire, come ordinavano le autorità francesi, oppure rimanere, sapendo il rischio a cui si andava incontro? È ancora lui che, per ben diciotto volte, viene chiamato dopo l’assassinio di qualcuno dei suoi in quel terribile decennio nero. Ogni volta, nel dolore e nella paura, tocca a lui informare i familiari, organizzare i funerali o il rientro in patria dei corpi. La diciannovesima − il 1° agosto 1996 − è la volta del suo amico e confratello Pierre Claverie, vescovo di Orano. Incredibilmente straziato, tiene duro.

Nel 2000, quando la tempesta è passata e le autorità algerine vorrebbero far cadere l’oblio sulla tragedia, Teissier viene invitato da Giovanni Paolo II per la celebrazione al Colosseo in onore dei «martiri del XX secolo»: con le famiglie dei 19 martiri d’Algeria, egli lancia la folle e profetica idea della loro beatificazione, desideroso di condividere con la Chiesa universale una straordinaria testimonianza di fedeltà al Vangelo.

Fine conoscitore della sensibilità algerina, sa meglio di chiunque altro il rischio di questa esposizione. «Non si tratta di opporre la violenza subita dai cristiani a quella che ha colpito tutta la società», ha sempre ripetuto. «Se noi cerchiamo di riconoscere la testimonianza di vita dei nostri, è perché ne abbiamo la responsabilità. Ma questo non cancella la fedeltà, l’opera e il coraggio di tutti coloro che in quegli anni hanno pagato il medesimo prezzo». Nello stesso tempo, si batte affinché il monastero trappista di Tibhirine rimanga un luogo di preghiera cristiana (accoglie ora una piccola comunità del movimento Chemin-Neuf).

Molti anni dopo, l’8 dicembre 2018, l’esito supera ogni aspettativa. Con una scelta del tutto inattesa, è l’Algeria stessa, Paese dalla memoria ferita, sempre combattuto tra la tentazione del ripiegamento e l’apertura, che accoglie la prima beatificazione in un contesto a larga maggioranza musulmana. La celebrazione, in questo modo, può tenersi proprio là dove «questi uomini e queste donne sono rimasti, per fedeltà a un popolo e a un Paese», e trova l’appoggio delle autorità algerine, dei rappresentanti delle autorità civili, delle famiglie dei martiri e delle quattro diocesi della Chiesa cattolica in Algeria, come pure di molti algerini. Essa riunisce nello stesso omaggio «migliaia e migliaia di intellettuali, di giornalisti, di imam, di padri e madri di famiglia»ai quali viene dedicato un minuto di silenzio all’inizio della celebrazione.

Per quest’uomo, per questo pastore dal cuore grande e dalla lacrima facile, la bellissima celebrazione ad Orano, nel santuario di Notre-Dame di Santa Cruz, è stata il compimento del cammino di una vita, ma anche una forma di guarigione. Essa ha incoronato una vita interamente donata alla Chiesa e all’Algeria.

Anne-Benedicte Hoffner, La Croix, 1 dicembre 2020 – Traduzione a cura di SettimanaNews
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