di Jean-Léonard Touadi
La crisi dei modelli democratici e la ribellione allo sfruttamento e alle ingerenze delle ex potenze coloniali dovrebbero spingere i leader del continente ad assumersi maggiori responsabilità. E ad elaborare un progetto politico ambizioso. Le sfide del 2024 sono un banco di prova importante
«Con la libertà vengono le responsabilità, e io non oso indugiare: il mio lungo cammino non è ancora finito».Così Nelson Mandela alla fine della sua monumentale autobiografia Lungo cammino verso la libertà. 64 anni dopo le indipendenze è arrivato per gli africani e i loro dirigenti il tempo delle responsabilità. Quel tempo, cioè, in cui si misura il peso delle proprie scelte e si forgia una visione per il presente e il futuro. Da questo punto di vista è successo nel continente un fatto straordinario, ossia la cacciata simbolica del Padre francese dal Mali, preparata da una serie di passi falsi – da parte della potenza colonizzatrice e neocolonizzatrice – politici e geopolitici che hanno reso irreversibile il rifiuto di un passato che non somiglia più a quello che gli africani vogliono: la libertà piena. Ma volere la libertà non sempre equivale ad assumersi le responsabilità. Si punta il dito contro la violenza e l’oppressione del padre e si chiude un occhio, a volte tutti e due, su quella esercitato da Caino contro Abele in Africa, da africani contro altri africani. E qui vale il detto africano secondo il quale “mentre punti il dito contro l’altro, ricordati che ci sono altri tre puntati contro te stesso”. Postcolonialismo vuol dire – al di là delle sofisticate definizioni accademiche – esattamente questo. Assunzione di responsabilità nella consapevolezza delle scorie della storia da decodificare continuamente come momento propedeutico, ma poi capacità di rispondere della propria sfera di autonomia e presa d’atto delle proprie scelte politiche, culturali e sociali sui cittadini che sognavano, e sognano ancora lungo questi decenni, il «sole delle indipendenze», che non è mai apparso o che è tramontato troppo presto. L’Africa deve danzare la danza del sole che deve tornare a brillare sulla vita dei suoi popoli e delle sue comunità piegate sotto una doppia solitudine: dei meccanismi perversi della globalizzazione e della sua leadership offshore, incapaci di essere i sismografi che registrano i sommovimenti della pentola africana che brucia e di tradurli in progetti politici credibili e in grado di dare la vita agli africani.
Le sfide del 2024 sono di natura economica, politica e geopolitica, e le scelte che saranno fatte sono destinate a segnare il futuro del continente dentro la storia globale, che accelera e chiede decisioni rapide e incisive; capacità di avere una visione ma anche pragmatismo per operare con efficienza e lucidità. Mandela ripeteva che il XXI secolo o sarà africano o non sarà. Per essere all’altezza di questa profezia le Afriche devono dimostrarsi all’altezza delle loro immense potenzialità e dei loro popoli, giovani e in piena effervescenza, che aspettano solo delle infrastrutture politiche, economiche e geopolitiche in grado di canalizzare verso una operatività afro-africana le risorse infinite del continente del futuro.
Dal punto di vista economico, si prevede che nel 2023-24l’Africa diventerà la seconda regione a più rapida crescita al mondo dopo l’Asia, dimostrando la continua resilienza della sua economia nonostante i molteplici shock globali. Ma, secondo l’edizione 2023 del rapporto African Economic Outlook della Banca africana di sviluppo, la crescita prevista dipenderà dalle condizioni globali e dalla capacità del continente di rafforzare la propria resilienza economica. Il rapporto, lanciato a maggio, prevede che l’Africa consolidi la sua ripresa dall’impatto della pandemia di covid-19 con una crescita del pil del 4,3% nel 2024, rispetto al 3,8% del 2022. Circa 22 Paesi registreranno tassi di crescita superiori al 5%. Rafforzare la resilienza significa attrezzarsi a resistere agli shock esterni e innovare. Innovare significa, per l’Africa, abbandonare lo schema predatorio dell’economia basato sulle materie prime e diversificare gli investimenti verso produzioni che creino posti di lavoro, cioè inclusione sociale; difendendo l’ambiente. Non esportare materie prime ma trasformarle in loco creando fondi di sviluppo per prosciugare l’enorme debito e investire in infrastrutture e nel capitale umano, che significa scuola, sanità e urbanizzazione sostenibile.
Dal punto di vista politico, vanno archiviati gli entusiasmi esagerati dei processi di democratizzazione che non hanno portato democrazia ma democrature pressoché ovunque, persino nel Senegal. Orgnizzare elezioni, avere formali istituzioni scimmiottate da modeli extra-africani, imitare modelli autocratici cinesi o russi, non rispettare la libertà di stampa, rendere eterna la permanenza al potere, mettere la museruola agli oppositori, clochardizzare un intero popolo nelle città e nelle campagne non significa democratizzare l’Africa. 34 anni di inganno democratico (1990-2024) devono cessare. E, nella loro complessità e ambiguità, i colpi di stato dicono la stanchezza e delusione dei popoli per questa parodia di democrazia dell’uomo solo al comando. Si riparta da zero con l’affermazione solenne che non c’è democrazia senza l’accesso di tutti ai beni essenziali. Basic needs are basic rights (i bisogni essenziali sono diritti fondamentali) deve diventare il solco dei processi della nuova democratizzazione del continente. E questa scelta la devono fare gli africani, senza l’alibi del cattivo colonizzatore che opprime. La democrazia, prima ridà la vita alla maggioranza, poi cerca le vie istituzionali per la partecipazione e la gestione del potere.
E le scelte geopolitiche non possono che essere coerenti con le due sfide economiche e politiche. Si declama spesso che l’Africa vuole e pretende partenariato. Bene. Ma sulla base di quale progetto afrocentrico? Quale parametro per scegliere i partner globali? Spesso abbiamo visto che si uccide il padre coloniale per subito cercarne un altro diverso, ma con sembianze simili a quello cacciato. La natura ha orrore del vuoto. Se l’Africa non esprimerà il proprio progetto, ossia come intende finalmente vivere da sé e per sé, ci saranno altri a pensare per lei una presunta win-win cooperation. Non basta entrare nei club dei Brics in ordine sparso. Aveva senso l’adesione dell’Unione Africana ai Brics: pesava di più e poteva influire di più sulle decisioni. Altrimenti è una fuga in avanti per non badare ai propri compiti. «Accumuleremo macchine e creeremo metallurgie, fonderie e fabbriche; stabiliremo collegamenti tra i vari Stati del nostro continente mediante le comunicazioni; stupiremo il mondo con la nostra energia idroelettrica; prosciugheremo paludi e acquitrini, ripuliremo le aree infestate, nutriremo i denutriti e libereremo le nostre popolazioni da parassiti e malattie. È compito della scienza e della tecnologia trasformare il Sahara in un vasto campo verde per l’agricoltura e lo sviluppo industriale primari» (Kwame Nkrumah). Come dicevano i latini, “primum vivere, deinde philosophari”. Prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o abbonati alla rivista.