Questo è uno dei casi in cui è meglio cominciare dicendo qualcosa dell’autore. Senegalese, ultranovantenne, laureato a Parigi in Diritto e in Filosofia, anche ministro per un decennio nel suo Paese (con Senghor e poi con Abdou Diouf), è lui l’autore del romanzo L’ambigua avventura, che scrisse, ventiquattrenne, nel 1952, per vederselo pubblicare nel 1961 e col quale vincere il Gran premio letterario dell’Africa nera giunto alla seconda edizione. L’ambigua avventura poneva con lucidità e con originalità la questione tradizione/modernità, declinata attraverso la vicenda del giovane Sambo Diallo, che andrà a studiare a Parigi e farà ritorno al paese dei Diallobe, incontrandovi una tragica fine. È da questo romanzo che vengono tuttora pescate citazioni come «l’arte di vincere senza avere ragione» di cui gli europei detengono il segreto…
Cheikh Hamidou Kane ha scritto un solo altro romanzo, questo, uscito nel 1995 e arrivato in Italia solo adesso. Non è esattamente il sequel del primo, ma vi aleggia ancora la presenza di Sambo Diallo (anche esplicitamente citato). Qui siamo in un’altra epoca – 1957-58, con l’indipendenza ormai in vista – e la narrazione è più globale. Il colono francese si è apparentemente tirato un po’ da parte e comincia a porsi con concretezza la questione del modello di società che dovrà essere costruito. «Non c’è salvezza, cioè rinascita, per l’Africa – è il pensiero dell’autore, in bocca a uno dei suoi personaggi – se non a condizione di realizzare le parole d’ordine riassunte nel trittico: Liberazione totale del continente – Stati Uniti d’Africa – socialismo africano».
L’«ineguagliabile coppia di custodi del tempio» è costituita dal griot Farba Mâri – “fratello” dell’ingegnere agronomo Salif, tornato dalla Francia e che apporterà soluzioni per la crisi alimentare dei Sessene, “cugini” dei Diallobe, nel rispetto del principio che la terra appartiene a tutta la comunità – e Daba Mbaye, professoressa di storia alla Sorbona ma figlia di griotte: una bellezza “africana”e una leader nata.
È un romanzo, quindi c’è un l’intreccio. Numerosi sono anche i personaggi, che concorrono a farne un romanzo corale. Ma, forse ancor più che per la trama, questo libro s’impone per la visione del futuro dell’Africa – e della sempiterna tensione fra modernità e tradizione – che vi viene esposta, con allusioni ora trasparenti ora indirette alle correnti di pensiero (dalla negritudine alla posizione di Cheikh Anta Diop) e con molte frasi “riflessive”, più che narrative, in cui l’autore confonde le sue idee con quelle dei suoi personaggi.
Sessant’anni sono passati dall’epoca in cui il romanzo è ambientato, eppure i dati essenziali delle questioni sollevate paiono ancora in buona parte attuali. Perché l’autore non rimane schiacciato sulla cronaca ma guarda alla storia. Per esempio: «L’esperienza in un paese sessene forniva una risposta alla domanda che i Diallobe si erano posti un tempo, sulla soglia della nuova scuola: quello che avrebbero imparato sarebbe valso ciò che stavano per dimenticare? La risposta era che si può imparare senza dimenticare, e perfino imparare di nuovo ciò che era stato dimenticato».
Calabuig, 2018, pp. 240, € 20,00
(Pier Maria Mazzola)