di Federico Monica
In quasi tutti i Paesi africani gli influssi e i retaggi del colonialismo sono ancora ben evidenti in innumerevoli aspetti, dall’economia alle strutture amministrative, fino ai sistemi di istruzione. È così anche per quanto riguarda la forma urbana e la pianificazione e gestione delle città, che mantengono più o meno consapevolmente soluzioni e approcci basati sulla segregazione e l’esclusione.
«La grandezza degli isolati deve essere di una dimensione tale che un capitano possa controllare almeno due incroci in ogni direzione». Così scrivevano i genieri francesi tracciando le linee guida per la pianificazione delle città nei dipartimenti d’oltremare. Nulla a che vedere con geometrie, funzioni, disegno urbano, ma puro e pragmatico controllo del territorio.
Negli stessi anni i loro colleghi inglesi, ossessionati dall’igiene e dalla prevenzione delle malattie, elaboravano agghiaccianti formule scientifiche per calcolare la distanza minima da mantenere fra quartieri europei e quartieri africani al fine di preservare i funzionari di Sua Maestà dalle malattie; giunsero persino a ottenere un numero esatto: 440 iarde, circa 400 metri.
Gran parte delle odierne capitali africane nasce sulla base di queste teorie, secondo le quali gli spazi urbani sono i primi in cui misurare l’esclusione e la segregazione. I piani per le nuove città “d’oltremare” erano studiati con grande cura e basati sulle più moderne teorie urbanistiche, come quelle delle città giardino, applicate fra le altre a Lusaka o Harare. Attenzione, però: questi esercizi razionali e innovativi erano esclusivamente riservati alle porzioni di città europee, in cui si concentravano gli edifici amministrativi e le residenze di coloni ed espatriati; ai bordi delle mappe dell’epoca (e ad opportuna distanza) vi erano poi ampi spazi bianchi o macchie scure indistinte con sovrapposta la scritta “native quarters” o “quartieri indigeni”.
Ciò che accadeva all’interno di quei quartieri, a parte rari casi, non era di interesse dei pianificatori coloniali. Dovevano restare effimeri, in modo da poter essere sgomberati facilmente, o caotici e possibilmente poco ospitali, per scoraggiare le persone dallo stabilirvisi oltre lo stretto necessario. I portoghesi, con amara ironia, li chiamavano caniços, canneti, contrapposti alla razionalità della cidade de cimento riservata ai coloni.
E mentre i francesi disegnavano griglie di strade per aumentare il controllo sulla popolazione autoctona, gli studiosi britannici ragionavano sulle densità ideali: una famiglia per acro nei quartieri “bianchi” e una concentrazione ben otto volte superiore nei quartieri africani. Le città divennero così il luogo fisico in cui sperimentare la segregazione, spesso con il supporto di teorie e modelli razionali come quello delle “cinture verdi” che, lungi dall’essere ridenti parchi urbani, nacquero spesso proprio per separare fisicamente con una barriera naturale considerata “purificatrice” gli insediamenti indigeni da quelli europei.
Residui del passato? No, tutt’altro: purtroppo, come nei sistemi educativi o legislativi, i retaggi dell’urbanistica coloniale restano evidenti anche nel presente e indirizzano le politiche attuali come fantasmi di cui è difficile liberarsi. I regolamenti edilizi di molte città privilegiano l’uso di cemento e lamiera, rifiutando i permessi a chi utilizza i materiali tradizionali, mentre gli isolati delle nuove periferie a Dakar, N’Djamena o Bamako si basano ancora, forse inconsapevolmente, su reticoli in cui il lato minore è compreso fra 60 e 75 metri: esattamente le dimensioni individuate dai militari coloniali francesi in chiave antisommossa.
Al fianco di tutto ciò, le periferie delle grandi metropoli vanno popolandosi di esclusivi quartieri recintati inaccessibili alla maggioranza della popolazione, non più secondo linee etniche ma economiche.
La storia a volte si ripete in maniera beffarda. Il masterplan della Eko Atlantic City di Lagos, un nuovo scintillante quartiere di grattacieli realizzato strappando terreni al mare, prevede un grande parco che lo dividerà dal caos della città esistente. E indovinate quale sarà l’estensione di questa moderna cintura verde? 440 iarde. Vi ricorda qualcosa?
Questo articolo è uscito sul nuovo numero della rivista Africa. Per comprare una copia, clicca qui.