I nostri vestiti usati inquinano il Ghana

di Marco Trovato

Al mercato di Kantamanto, nella capitale Accra, arrivano ogni settimana quindici milioni di indumenti di seconda mano scartati nel nord del mondo. Il business dei “vestiti dei bianchi morti” crea decine di migliaia di posti di lavoro. Ma produce anche enormi problemi di inquinamento. Il colosso del commercio tessile Shein vorrebbe rimediare a suo modo…

testo di Mariachiara Boldrini – foto di Andrew Esiebo/Panos /Luz

Nel corso del Summit Globale sulla sostenibilità nel mondo della moda tenutosi a Copenaghen l’azienda cinese Shein ha dichiarato che donerà 50 milioni di dollari per iniziative di economia circolare che facciano fronte all’inquinamento tessile. 15 milioni saranno devoluti in tre anni alla Or Foundation, un’organizzazione no-profit che supporta le comunità locali ghanesi che dai vestiti usati scartati nel Nord del mondo sono riuscite a ricavare un’opportunità di impiego. Adam Whinston, responsabile per la governance sociale dell’azienda, ha definito “ambizioso” il progetto della Fondazione Or, che si propone di creare un programma di apprendistato per le donne di Kantamanto, in Ghana, sostenere le imprese locali e migliorare le condizioni lavorative dei lavoratori del business degli abiti usati.

Secondo la direttrice e cofondatrice della Fondazione, Liz Ricketts, la donazione del colosso dell’e-commerce è un atto “rivoluzionario” e un “passo significativo verso la presa di responsabilità dei marchi di moda”. Shein è stato infatti il primo marchio a riconoscere che gli abiti prodotti, dopo essere stati utilizzati soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, finiscono nelle discariche in Africa, dove difficilmente riescono ad essere totalmente riciclati o riutilizzati. “L’attuale quadro di riferimento per la responsabilità aziendale dei marchi di moda – spiega Liz Ricketts – si basa su una politica che prevede che i marchi produttori sostengano, come forma di gestione dei rifiuti, l’esportazione di abiti di seconda mano nel Sud del mondo, senza offrire alcun sostegno finanziario alle comunità che se ne occupano”. L’accordo crea invece un precedente interessante, consentendo che la compensazione finanziaria prevista dalle industrie “fluisca direttamente alle comunità che gestiscono in prima persona il riciclo dei rifiuti di abbigliamento”.

IL BUSINESS DEI VESTITI DEI BIANCHI MORTI

Sul blog di Fashion Revolution, un movimento di attivisti globale che si occupa di sostenibilità nel mondo della moda, la direttrice di Or Foundation aveva già raccontato nel 2019 il business dei vestiti di seconda mano, chiamati in Ghana “Obroni W’awu”, ovvero, in lingua akan, “vestiti dell’uomo bianco morto”. Il commercio prese piede nel paese negli anni ’60, quando si iniziò ad importare vestiti a basso costo considerati di alta qualità e ancora in buono stato (da qui l’idea che fossero di stranieri “deceduti”) e si propagò di pari passo con la moda di indossare abiti all’occidentale all’avvento dell’indipendenza (1975). Al mercato di Kantamanto, uno dei maggiori hub per di abiti usati al mondo, circa sette ettari nel centro di Accra, vi sono oggi circa 5.000 negozi di abiti usati che danno lavoro a 30.000 persone.

Tuttavia, il business dei “vestiti dei bianchi morti” ha recentemente perso di prestigio, perché l’abbigliamento che arriva è soprattutto di seconda mano e difficilmente riutilizzabile. Ogni settimana – ha spiegato Ricketts – arrivano circa 15 milioni di vestiti ammassati in balle che i rivenditori locali smistano in massa: solo il 60% è riutilizzabile, mentre il resto viene scaricato nel Golfo di Guinea, bruciato nelle baraccopoli producendo tossine tossiche o accumulato spropositatamente nelle discariche aperte e non pianificate, con ripercussioni per la flora e la fauna locale e risvolti negativi per l’ambiente, le infrastrutture e la salute degli abitanti del luogo.

SCHIAVE DELLA SPAZZATURA

Nel comunicare l’iniziativa dell’azienda cinese la direttrice di Or Foundation ha ricordato anche la straziante condizione lavorativa dei ghanesi che riescono a prolungare la vita degli indumenti, lavandoli, stirandoli, tingendoli e rammenandandoli per riadattarli e riciclarli.  Samuel Oteng, creativo e project manager di Or, aveva già raccontato lo scorso autunno come gli abiti usati arrivano in container con circa 400 balle, che vengono acquistate a scatola chiusa dai rivenditori per cifre che vanno dai 25 e i 500 dollari. Solo il 16% dei dettaglianti riesce a realizzare un vero e proprio profitto.

In particolare le donne sono considerate dagli stessi lavoratori del mercato le vere schiave della catena di riciclo. Kayayei o kaya, così sono chiamate queste ragazze trasportatrici che a volte hanno solo 14 anni, migrate dal Nord del Paese in cerca di maggiori opportunità economiche. Dormono per terra su pavimenti di cemento e finiscono a lavorare come facchine portando pile di vestiti che pesano quanto il loro corpo (da 50 fino, a volte, a 100 chili), oltre ai figli, che dai 6 anni lavorano con loro. Il guadagno per ogni viaggio varia da 0,30 centesimi a 1 dollaro. “Per questo abbiamo chiesto ai marchi di pagare il conto dovuto alle comunità che gestiscono i loro rifiuti”, ha dichiarato Ricketts, ma i benefici rimangono comunque sbilanciati e l’annuncio di Copenaghen ha nuovamente acceso i riflettori sull’ecosistema della moda.

GREENWASHING

Shein è infatti uno dei maggiori rappresentanti di quel mondo del fast fashion che ha nella sovrapproduzione e nelle abitudini di acquisto iper-consumistiche occidentali i suoi valori fondanti. Nata nel 2008 dalla fusione di altre realtà, l’azienda oggi è valutata da Bloomberg per un valore di oltre 100 miliardi di dollari (più di Zara e H&M messe insieme), vende in 220 paesi, è l’app di moda più popolare negli Stati Uniti e il secondo sito di moda più popolare al mondo. Con catene di approvvigionamento poco chiare e basando il suo successo sulla vendita di prodotti dal costo irrisorio e di bassa qualità che restano online per poche settimane, il suo fondatore, Chris Xu, è riuscito a costruire un impero e ad entrare nella lista dei nuovi miliardari stilata da Forbes.

Già Reuters aveva indagato – senza riuscirvi – sulle condizioni lavorative dei suoi dipendenti e, nonostante i proclami che puntano a costruirne un’immagine positiva nella sezione del suo sito dedicata alla responsabilità sociale, l’azienda rimane avvolta da una moltitudine di ombre. “Stiamo facendo la nostra parte per mantenere il pianeta il più bello possibile” si legge sulla vetrina virtuale allestita da questo gigante della moda “usa e getta”, ma gli attivisti ambientali mettono in guardia: rischia di trattarsi di una misura di greenwashing (strategia di comunicazione e marketing perseguita da aziende e istituzioni che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo).

L’AFRICA AFFOGA SOTTO I RIFIUTI OCCIDENTALI

“L’economia dell’abbigliamento di seconda mano è uno specchio dell’economia dell’abbigliamento di prima mano: – scriveva la stessa Ricketts nel 2019 – Kantamanto è uno sbocco (necessario) per l’eccesso creato dall’industria della moda” che crede di riciclare i residui del suo modello di business e finisce invece per affogare nei rifiuti l’Africa Subsahariana. Ispirate all’alta moda, sempre più catene d’abbigliamento mettono in vendita quasi ciclicamente e a prezzi bassissimi una quantità ampissima di prodotti, che vengono però sostituiti dai consumatori con quelli della nuova collezione solo dopo pochi mesi e quindi gettati, fino ad arrivare sulle strade di Accra.

L’iniziativa di Shein non riesce ad andare al cuore del problema, regolare gli avanzi di produzione e ridurre il flusso di scarti tessili, che in Africa Subsahariana sono un problema serio. Secondo Oxfam il 70% degli indumenti usati del mondo giunge infatti nel continente e l’Africa Orientale pullula di mercati informali simili a quello di Accra. Solo il Rwanda, nel 2016, ha preso provvedimenti, innalzando le tariffe sull’importazione di indumenti second-hand da 0,20 a 2 dollari e 50 al kg, nel tentativo di rilanciare l’industria della moda locale. I 25 mila posti di lavoro creati dalle imprese locali non hanno però sostituito gli oltre 300mila del mercato degli abiti usati andati perduti. Gli scarti dei nostri armadi che gettiamo ad ogni cambio di stagione, composti da fibre tessili già di bassa qualità erose dal tempo e dai lavaggi, continuano quindi ad essere in Africa una fonte di approvvigionamento ma, anche, di sfruttamento e inquinamento.


Le foto dell’articolo sono tratte dall’ampio reportage che sarà pubblicato sul numero 5/2022 della Rivista Africa

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