L’incredibile storia dei madgermanes del Mozambico e la loro lotta contro l’oblio. Negli anni Ottanta, ventimila giovani mozambicani partirono per la Germania dell’Est – mobilitati dal loro governo – con un duplice obiettivo: guadagnarsi da vivere e imparare un mestiere utile alla patria. Ma qualcuno si prese gioco di loro…
di Marco Simoncelli
È un mercoledì mattina qualunque, a Maputo, la capitale del Mozambico. Una quarantina di uomini maturi si raduna nel “Jardim 28 de Maio” con tamburi, fischietti e bandiere tedesche. C’è chi si avvolge il vessillo attorno alla testa per proteggersi dal sole cocente e chi indossa berretti coi colori della Germania. Altri srotolano lunghi striscioni. I madgermanes si preparano a sfilare fino al ministero del Lavoro. Da ventisette anni ormai, ogni mercoledì, con il bello o il cattivo tempo, bloccano uno dei viali più trafficati della città, provocando l’ira degli automobilisti. Con urla e canti chiedono giustizia.
Schiavitù per debiti (altrui)
«Eravamo degli schiavi senza saperlo… vittime sacrificali del sistema che ora cercano di cancellare», afferma il rappresentante dei madgermanes, José Cândido Culambe, mentre si sistema una sciarpa della Germania sulle spalle. «Ci hanno tolto tutto, diritti, lavoro… Manifestare è tutto quel che ci rimane», continua al suo fianco Constantino Chumswemane.
È una storia che ha i suoi prodromi nel 1975, anno dell’indipendenza del Mozambico. Andò al potere il Frelimo, il movimento di liberazione marxista-leninista. Per costruire la nuova nazione, rimasta a corto di personale qualificato dopo il repentino esodo di gran parte dei coloni portoghesi – per libera scelta o coatto –, si rivolse ai Paesi del blocco sovietico. Il governo iniziò ad inviare molti giovani a studiare e a lavorare a Cuba, in Unione Sovietica e «Paesi fratelli».
Nel 1979 fu siglato un accordo con la Repubblica Democratica Tedesca (Rdt), con la quale Maputo aveva accumulato un grosso debito per la costruzione di una serie di fabbriche. Tra i sedicimila e i ventimila ragazzi e ragazze partirono per la Germania dell’Est, convinti di andare a imparare un mestiere che sarebbe poi tornato utile al proprio Paese. In realtà aiutavano lo Stato a ripagare il debito, «ma noi non ne sapevamo nulla!», protesta José Cândido. Il contratto prevedeva il versamento del 40% del loro salario in Germania e il 60% al governo mozambicano, che l’avrebbe poi devoluto al lavoratore in meticais, la valuta locale, al momento del suo rientro. «Questo ci venne detto. Oggi sappiamo che lo Stato semplicemente sfruttava la nostra fatica per ripagare i suoi debiti», dice adirato João Colarinho Maneca mentre imbraccia un grosso tamburo.
Governo infastidito
Con la riunificazione tedesca (1990) il programma terminò e la maggior parte degli emigrati tornarono a casa, contando sul gruzzolo custodito per loro dal governo. Le cose andarono diversamente. Oltre a non vedere mai quel denaro, trovarono un Paese in piena guerra civile (finita poi nel 1992), quando scovare un impiego era pressoché impossibile.
I madgermanes – così vennero chiamati i “tedeschi”, con un neologismo derivato da made in Germany – si ritrovarono nel caos, tra un Paese che aveva cessato di esistere e un altro, il loro, dilaniato dalla guerra civile. Per questo risulta difficile capire che fine abbiano fatto le loro paghe. I documenti a disposizione dicono che Berlino ha effettivamente inviato il denaro a Maputo; è probabile che questo sia poi finito nei meandri dello Stato mozambicano, magari per saldare altri debiti, o intascato da funzionari senza scrupoli.
Privi di un impiego e con pochi soldi in tasca, i madgermanes sono finiti per strada, vivendo di stenti e inventandosi lavoretti per sopravvivere. A un certo punto si sono organizzati e hanno preso a reclamare il dovuto. Il governo si è mostrato sordo; infastidito da un problema che non voleva affrontare, ha fatto piccoli pagamenti simbolici a casaccio. E nulla più. «Abbiamo cominciato a scendere in piazza spesso, e le autorità hanno cercato di proibircelo. Gli scontri con la polizia sono diventati violenti. Due dei nostri sono morti… L’ultimo nel 2013, ucciso da un proiettile vagante», racconta José Cândido.
E Berlino?
I madgermanes hanno cercato di coinvolgere anche le autorità tedesche: benché sia passato tanto tempo e il caso riguardasse l’Rdt, non possono venir meno alle responsabilità ereditate dalla riunificazione. «Il mio Paese ha delle colpe», ammette Roland Hohberg, che gestisce l’Istituto culturale Mozambico-Germania a Maputo e che segue da anni il caso dei madgermanes. «Si è sempre sottratto sostenendo che il denaro è stato trasferito al governo mozambicano come da accordi (una stima parla di 100 milioni di dollari), e ciò che è avvenuto in seguito “non lo riguarda”. Ma quando si è trattato di fornire semplici informazioni come l’ammontare dei trasferimenti, i numeri dei conti bancari e le intestazioni, ha taciuto. È un silenzio complice», afferma perentorio. E continua: «Inoltre, ha sempre dichiarato di accogliere i lavoratori mozambicani per “formarli e aiutare un alleato”, mentre sono venuti alla luce carte che attesterebbero l’intento dichiarato di usarli per ammortizzare il debito di Maputo… Moderni schiavi, insomma».
Derubati anche degli affetti
Eppure i madgermanes conservano ancora bei ricordi della Germania. «Per molti di noi era la prima volta su un aereo e quando atterrammo non ci sembrava vero. C’era la neve… un altro mondo!», dice ridacchiando Constantino, mostrando foto e ritagli di giornali tedeschi di quei tempi. Inizialmente venivano mandati soprattutto a Berlino e Dresda per seguirvi dei corsi, e poi in altre città come Lipsia, Magdeburgo, Cottbus e Rostock per lavorare. «La mia vita non era male, là. C’era un bel rapporto con i capi e in genere con i tedeschi. Avevamo molti amici e con loro nei fine settimana giocavamo a calcio e frequentavamo i locali, dove non era difficile conoscere delle ragazze», assicura José mostrandomi una sua foto con Birgit, la donna che dovette lasciare al momento di rientrare. «Siamo ancora in contatto, ma ciascuno si è rifatto la propria vita… L’idea era di venire a prelevare i miei soldi e tornare in Germania per sposarla: fu impossibile».
Sono in molti ad aver lasciato degli affetti in Europa. Alcuni anche figli, che in certi casi non hanno fatto in tempo a conoscere. Come è successo a Ebraimo Hossumane e a Paulo Sawangwan, che hanno poi messo su famiglia a Maputo. «Avevamo pochi giorni per decidere il da farsi. Restare, ricominciando da zero in un Paese straniero, o tornare a recuperare i soldi. La mia Jaklin aspettava un bambino… Non so che fine abbiano fatto», sospira Ebraimo appoggiato a un ceppo d’albero. Nel salotto di casa, Paulo invece tira fuori da un album una foto in bianco e nero: «È Angelika con mia figlia Mandy, che aveva cinque mesi quando partii. Oggi avrà trent’anni. Non l’ho più vista… Pagherei per incontrarla e spiegarle».
È uno dei tanti lati tristi di questa storia. Intanto la marcia odierna è quasi arrivata di fronte al ministero. Fuori, le guardie osservano con sguardo minaccioso. Dalle finestre dell’alto palazzo s’intravedono delle sagome. «Ci guardano con odio perché ogni settimana siamo qui a ricordargli quello che ci hanno fatto… Credono che un giorno la smetteremo», afferma con un sorriso furbo Nelson, il portabandiera che sfila sempre in testa al corteo a torso nudo. «Ma noi non molleremo mai. Continueremo fino all’ultimo respiro». Allora… a mercoledì.
(Testo e foto di Marco Simoncelli)
Articolo pubblicato sul numero 3/2018 della Rivista Africa. Approfitta delle promozioni in corso per abbonarti: clicca qui