I tesori del Mar Rosso

di claudia

di Massimo Bicciato*

Porti, fari, isole, fondali: un viaggio tra storia e natura alla scoperta delle prodigiose acque che dividono – e collegano – l’Africa e la Penisola araba. Abbiamo navigato lungo la storica rotta dei fari narrata dallo scrittore e avventuriero francese Henry de Monfreid. Tra le coste di Egitto, Sudan, Eritrea e Gibuti. Un viaggio straordinario di oltre duemila chilometri che ci ha svelato le bellezze e la storia di un mondo pieno di meraviglie

Erano trascorsi meno di cinquant’anni dall’apertura del Canale di Suez, avvenuta il 17 novembre del 1869, quando un avventuriero e scrittore francese cominciò a navigare a bordo del suo sambuco le coste del Mar Rosso occidentale organizzando traffici poco legali, ma raccontando storie fantastiche di questo tratto di mare. Con il pensiero rivolto a quegli anni compaiono nella memoria le immagini sbiadite dei vecchi porti africani avvolti da un clima torrido dove si trovano ormeggiate flotte di imbarcazioni dalle prue filanti.

Siamo nel 1909, un trentenne di nome Henry de Monfreid, viaggiatore irrequieto, convertitosi all’islam, molla gli ormeggi del suo sambuco e dopo aver issato la grande vela triangolare ci accompagna in un viaggio immaginario da nord a sud. Una navigazione lunga 1.350 miglia, 2.230 chilometri, durante la quale costeggeremo le coste di Egitto, Sudan, Eritrea e Gibuti. Henry, che morirà all’età di 95 anni, nel 1974, narrò le sue avventure in oltre sessanta libri tra racconti, romanzi e resoconti di viaggi. Rileggendo i suoi diari, partiamo dal punto esatto in cui si separano i due bracci del Mar Rosso, quello di Aqaba, che si distende a est verso la Giordania, e quello di Suez a ovest; nel mezzo, la penisola del Sinai con l’imponente scogliera di Ras Mohammed. Sotto le sue imponenti rocce modellate dal vento, il Mar Rosso ci regala gran parte della sua straordinaria bellezza.

Egitto, foreste di coralli

A bordo del sambuco navighiamo diretti a ovest e attraversiamo lo Stretto di Gubal che separa il Sinai dalla costa africana; raggiungiamo Hurghada, dove ci accoglie un agglomerato di isole e barriere coralline: basterà nuotare lungo una delle tante formazioni madreporiche per osservare la fitta concentrazione di vita marina che si aggira in questi fondali.

Sospinti dal vento di nord-ovest proseguiamo fino al paese di El Quseir, l’antico Myos Hormos, uno dei porti strategici nel periodo romano dal I al III secolo d.C. Da qui puntiamo la prua dritto a est e dopo quaranta miglia di mare al traverso ci imbattiamo nelle due isole di El Akhawain, indicate sulle mappe nautiche con il nome di Brother Islands. Sull’isola maggiore svetta il faro eretto dagli inglesi nel 1882, ancora oggi riferimento per le navi che discendono o risalgono questo mare. In questi fondali vivono i grossi pesci pelagici, in particolare squali, mante e consistenti branchi di barracuda, tonni e carangidi; ma quello che più impressiona è la straordinaria ricchezza delle pareti coralline sommerse sulle quali si sono sviluppate gorgonie e coralli molli grazie al ricco nutrimento offerto dalla costante corrente.

Rientrando sotto costa ci troviamo di fronte ad una serie di fiordi, in arabo marse. È in una di queste che si trova il paese di Marsa Alam, da qualche anno il nuovo polo turistico egiziano. A cinquanta miglia dalla costa, si erge solitario il blocco corallino di Daedalus Reef, sul quale si staglia il secondo faro posto lungo la rotta di navigazione. Qui il Mar Rosso raggiunge profondità che superano i mille metri e, grazie a queste, i fondali sono rinomati per la presenza costante degli squali martello, che pattugliano il versante esposto a nord. Rientrando verso la costa e continuando la navigazione a sud ci imbattiamo in una zona ricca di reef semisommersi, indicata sulle mappe nautiche con il nome di Sataya, dove diverse famiglie di delfini Stenella stazionano tranquille all’interno della laguna. Proseguiamo la nostra navigata doppiando il capo di Ras Banas, una lunga propaggine che dalla costa si estende verso il mare aperto, oltre il quale si trovava l’antico porto di Berenice costruito da Tolomeo intorno al 260 a.C. e usato soprattutto dai Romani come quello di Myos Ormos. Con la prua a est verso il mare aperto si materializza Zabargad; le prime testimonianze di quest’isola ci furono tramandate da Plinio il Vecchio nel 78 d.C. che nella sua Naturalis Historia racconta di «un’isola che si trova nel Mar Rosso a trecento stadi dal continente, nuvolosa e battuta da forti venti; cercata a lungo dai naviganti».

Sudan, paradiso sommerso

Ancora cento miglia di navigazione con un buon vento a poppa sospingono il nostro sambuco a vele spiegate verso il confine con il Sudan. Da questo momento il paesaggio subisce una totale mutazione, scompaiono le sagome dei villaggi turistici, la sola visione che avremo davanti a noi è il deserto con lo sfondo delle sue montagne e le notti illuminate delle stelle, mentre all’orizzonte inizia a comparire la Croce del Sud, che ci accompagnerà nelle prossime notti di navigazione.
Per un lungo tratto si susseguono una serie di nove profonde marse che si insinuano per diverse miglia nella crosta terrestre fino a raggiungere la baia di Mohammed Qol, dove si trova un piccolo insediamento composto da una manciata di capanne e una moschea che svetta all’orizzonte come un faro in mezzo al mare. A poca distanza, una serie di minuscole isole di sabbia bianca, tra queste Angarosh, “la madre di tutti gli squali”.

Il sambuco punta verso l’atollo di Shaab Rumi, riconosciuto in tutto il mondo come uno dei più rinomati paradisi sommersi. È in queste acque che nel 1963 l’oceanografo francese Jacques Cousteau concretizzò lo straordinario sogno di un famoso predecessore della fantasia marina, un certo Jules Verne che raccontava storie fantastiche di uomini che vivevano sott’acqua. Pochi metri sotto la superficie sono ancora presenti i resti del villaggio sommerso di Precontinente, all’interno del quale, per un mese, sei oceanauti (ricercatori che conducono esperimenti di lunga durata nei laboratori sottomarini immersi negli oceani) vissero sul fondo del mare senza riemergere.

Poco più a sud si staglia all’orizzonte la sagoma del faro di Sanganeb, un segno indelebile in mezzo al mare; dalla sua cima tutte le cose assumono una dimensione surreale, l’acqua ha il colore dello smeraldo e dello zaffiro, lo sguardo abbraccia l’intero panorama che si estende verso nord disegnando in mare aperto un vero e proprio porto naturale. Guardando verso la terraferma si intravedono le sagome di Port Sudan, il principale centro economico della costa sudanese. La sua storia risale al 1937, anno in cui gli inglesi soppiantarono il commercio marittimo arabo imponendo la costruzione di questo nuovo porto, capace di accogliere le navi a vapore di grande stazza dell’ammiragliato.

Riprendiamo la navigazione per percorrere ancora trenta miglia, che ci conducono verso Suakin, l’antico Evangelion Portus, “il porto della buona sorte” usato già in epoca- proto-islamica perché grazie alla sua posizione costituiva un rifugio sicuro per le flotte che attraversavano il Mar Rosso. La vecchia città è adagiata su un’isola che si trova all’interno di una profonda marsa collegata alla terraferma. Il sambuco entra lentamente sospinto da un alito di vento, mentre riassaporiamo le atmosfere, anche se ormai decadenti, dei vecchi porti dove i vascelli entravano per cercar riparo dopo le lunghe traversate.

Eritrea, isole da favola

Gli ultimi sprazzi del vento di nord-ovest ci sospingono ora verso le remote e minuscole isole sudanesi fino al confine con l’Eritrea. Poi solo una lunga costa piatta e desertica che ci segue fino a Massaua. Attraversiamo il canale che separa la città dall’arcipelago delle isole Dahlak – qui le temperature dell’acqua per diversi mesi all’anno superano i trenta gradi. Se la visibilità sott’acqua non è paragonabile a quella incontrata nella zona settentrionale, la bellezza e la vita superficiale delle isole è stupefacente.

Era il 1954 quando un gruppo di ricercatori italiani raggiunse per la prima volta questo remoto arcipelago per scoprire cosa si nascondesse sotto l’immensa superficie blu. Fu grazie alla spedizione di Sesto Continente della quale facevano parte anche il documentarista Folco Quilici e il regista Bruno Vailati che si cominciarono a identificare e catalogare le varie specie marine del Mar Rosso fino ad allora sconosciute.

Gibuti, gli innocui squali balena

D’ora in avanti la navigazione risente sempre di più del vento monsonico da sud-ovest. La prua del sambuco fende il mare, gonfia le vele e procede nel suo navigare. Il litorale costiero per oltre duecento miglia è arido, desertico, vuoto e inospitale fino al confine con Gibuti, l’ultimo dei Paesi africani, a cavallo tra Mar Rosso e Oceano Indiano. Siamo ormai giunti in prossimità dello stretto di Bab el-Mandeb, “la porta delle lacrime”. Lo attraversiamo e ci tuffiamo nell’immensità dell’oceano mentre il fascio di luce del faro di Obok ci fa capire che il nostro viaggio è ormai alle sue battute finali, non prima di esserci addentrati nel Golfo di Tagiura, dove stazionano diversi gruppi di squali balena. A mano a mano che ci avviciniamo si materializzano le sagome di uno dei più grandi e innocui animali marini, talmente mite da lasciarci senza parole.

L’ultimo tuffo è dedicato a loro e l’ultimo pensiero è rivolto a Henry de Monfreid e a quel giorno di novembre dell’anno 1911 quando raggiunse per la prima volta le coste del minuscolo Stato (oggi) di Gibuti. Di fronte a lui, una nuova vita ricca di incognite ma con la certezza di avere come compagno un meraviglioso mare da navigare e da raccontare.

*Massimo Bicciato, nato in Eritrea, fotografo e autore dell’articolo, è titolare del tour operator La Compagnia del Mar Rosso, specializzato in crociere subacquee in tutta l’area del Mar Rosso: Egitto, Sudan, Gibuti e Arabia Saudita. Nel 1984 ha iniziato a navigare e scoprire ogni angolo di questo mare.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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