Il Benin celebrato alla Biennale d’Arte di Venezia

di claudia

di Elisa Chiara – Centro studi AMIStaDeS APS

Venite a scoprire il Benin, il nuovo crocevia culturale del continente africano, in occasione della sua prima, storica, partecipazione alla Biennale di Venezia”. Sono queste le parole d’invito scritte sul Mag Pavillon, la pubblicazione che presenta la prima partecipazione del Benin alla sessantesima edizione della Biennale d’Arte di Venezia.

La mostra con cui il Benin approda alla rassegna artistica si intitola “Everything Precious Is Fragile” (“Tutto ciò che è prezioso è fragile”) ed è il coronamento di una più ampia strategia di sviluppo dell’economia creativa che è stata fortemente voluta dal governo di Cotonou fin dal 2016. Questa, con un probabile investimento di 2 miliardi di euro entro il 2026, intende fare dell’arte e della cultura del piccolo stato dell’Africa occidentale il secondo pilastro economico dopo l’agricoltura, e si inserisce nel quadro di importanti progetti strutturali, quali il Quartiere Culturale e Creativo di Cotonou che ospita il Musée d’Art Contemporain de Cotonou. Il Paese ha inoltre concluso diversi accordi di cooperazione con importanti musei internazionali per l’acquisizione di opere della diaspora.

Questa scelta strategica è ovviamente anche legata alla restituzione nel 2021 di 26 opere che erano state sottratte alla famiglia reale da parte dei francesi, durante la colonizzazione del regno di Danxomé; la mostra “Art du Bénin d’hier et d’aujourd’hui, de la restitution à la révélation” (“Arte del Benin ieri e oggi, dalla restituzione alla rivelazione”), allestita a Cotonou e attualmente riproposta in diversi paesi, ha preparato il terreno per la partecipazione alla Biennale.

Femminismo e ritorno alle origini

Il progetto intende esplorare la storia beninese, dalla tratta degli schiavi alla figura dell’amazzone, alla tradizione voodoo, addentrandosi nel concetto di rematriation, inteso non solo come idea femminista di restituzione delle opere e della conoscenze, ma anche come un ritorno alla cultura e alla tradizione antecedente la colonizzazione. Questa esposizione intende rendere concreta l’idea di fragilità del mondo, oggi più che mai accentuata da conflitti, disastri ecologici e disuguaglianze sociali ma anche, come spiega il curatore del pavillon del Benin, Azu Nwagbogu, la marginalizzazione sistemica della trasmissione dei saperi dei popoli autoctoni, con un particolare accento sulla produzione del sapere femminile.

Nwagbogu aveva effettuato un importante viaggio nel paese al fine di entrare in stretto contatto con le radici della tradizione voodoo, che gli hanno permesso di valorizzare l’idea di parallelismo fra la fecondità della natura e quella della donna, custode dell’umanità.

Proprio la celebrazione del femminismo è il fil rouge della narrazione del padiglione: le opere vogliono infatti raccontare il ruolo che la donna riveste nella società beninese, rappresentato in particolare dalle figure della guerriera e dal rito Gèlèdé.

Il Gèlèdé è una una cerimonia della comunità Yoruba-Nago che ha visto il giorno nel XVIII secolo nel villaggio di Ketu, situato all’est del paese. significa “mistero” e Lèdé significa “donna che ha dato nascita”. Nel 2008 il Geledé è stato iscritto a patrimonio immateriale dell’Umanità all’Unesco.

Questa cerimonia è anche molto diffusa in Nigeria e in Togo, e celebra la madre primordiale Yià NIa e più in generale il ruolo che occupano le donne nella società Yoruba. La cerimonia ha luogo ogni anno dopo il raccolto o durante gli eventi significativi come la siccità o le epidemie e assicura la trasmissione di un patrimonio orale fatto di un mix di poesia e lirica con l’utilizzo di figure di animali, come serpenti e uccelli messaggeri delle madri. Il rito è diretto esclusivamente dalle donne, chiamate lyaalu, che comunicano con gli spiriti ancestrali. Esso rafforza la coesione sociale e promuove l’uguaglianza di genere di fronte ad una società che è diventata via via sempre più patriarcale.

La spiritualità Gèlèdé simboleggia il potere spirituale delle madri nella società beninese, mentre il soggetto iconico dell’Amazzone riporta alla memoria il potere politico e militare di cui godevano le donne ai tempi del regno di Danxomè. Analizzando la storia della tratta degli schiavi emerge anche il ruolo fondamentale delle donne nella lotta contro la schiavitù. Infine, lo studio della religione Voodoo mette in luce il contributo determinante delle donne sia in veste di sacerdotesse sia come fedeli.

L’opera di Moufouli Bello

Quattro artisti differenti e la ricerca dell’equilibrio

Per la Biennale, inaugurata il 20 aprile a Venezia, Nwagbogu e la sua squadra, i curatori Yacine Lassissi e lo scenografo Franck Houndégla, hanno selezionato 4 artisti espositori per il Benin, sulla base di una riflessione accurata sulle potenzialità del riunire degli stili e delle identità così differenti.

Il primo è Romuald Hazoumè, il più conosciuto dei quattro, residente a Porto-Novo e celebre per le sue maschere create con materiale riciclato dalle bottiglie di plastica: la sua arte denuncia la dipendenza del continente dai combustibili fossili e vuole mettere in guardia sui rischi del trasporto informale di benzina.

Le sue installazioni denunciano inoltre la tratta degli schiavi: ne sono un esempio la “Bocca del Re”, composta da 304 maschere fabbricate a partire da bottiglie di plastica o quella del “Non Ritorno” che testimonia l’inumana migrazione irregolare a partire dall’esposizione di 5.000 infradito che si sono eclissate sulle cose beninesi.

Chloé Quenum, franco-beninese, vive e lavora a Parigi ed è stata scelta per essere l’espressione della diaspora beninese e una delle figure emergenti della scena artistica locale.

Ishola Akpo è un’ artista beninese nata in Costa d’Avorio, che sperimenta differenti mezzi, con un mix fra modernità e tradizione e il confine fra realtà e finzione, identità fisse e multiple. Negli ultimi anni si è dedicata alla ricerca su figure femminili africane di rilievo e potere.

Infine, Moufouli Bello è un’artista plastica beninese, ex giurista appassionata di esperienze in diritto sociale, giornalismo, fotografia e scrittura. E’ celebre per i suoi dipinti figurativi dalle accese tonalità blu e Il suo interesse per le questioni identitarie l’ha condotta a studiare le strutture ideologiche determinate dai culti, dalle tradizione e dalla tecnologia. La sua pittura si interessa alla visibilità del corpo femminile nero, al fine di decolonizzare l’immagine e la percezione della donna nera e di decostruire la condizione patriarcale del suo stato. Prosegue le sue ricerche dottorali sull’impatto dell’arte sulla creazione di nuovi spazi di diritto.

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