Il gruppo francese Areva ha chiuso il bilancio 2014 con una perdita di 4,9 miliardi di euro. I vertici hanno annunciato che procederanno a un ampio programma di tagli per risparmiare almeno un miliardo di euro da qui al 2017. E, sebbene Segolène Royale, il ministro francese per l’Ecologia, si è affrettata a dichiarare che non «ci saranno esuberi», si teme che il piano di spending review toccherà anche il personale.
Areva è una multinazionale che opera nel campo dell’energia. Il suo capitale è quasi interamente (90%) in mano allo Stato francese, che da anni ha affidato alla società le sue strategie nel campo del nucleare. In questo comparto, il gruppo transalpino è una vera autorità, gestendo tutta la filiera: dalle miniere di uranio alle centrali, alla produzione di energia elettrica. In questi ultimi anni, però, le cose per Areva sono gradualmente peggiorate. Perché? Per comprenderlo forse è opportuno fare un salto in Africa.
Nel continente ha presenze consolidate in Centrafrica, Gabon, Namibia e Sudafrica. Ma è in Niger però che Areva concentra i maggiori interessi. Nel Paese saheliano da cinquant’anni è il principale azionista della Société des Mines de l’Aïr e della Compagnie minière d’Akouta che controllano due importanti siti minerari nella regione di Arlit. Sta inoltre sviluppando un altro importante progetto a Imouraren. Proprio dai siti di Aelit, la società francese estrae gran parte della materia prima necessaria alle proprie centrali in patria. Per anni, Parigi ha imposto le proprie condizioni al Governo di Niamey non solo tenendo livelli bassi dei prezzi, ma limitando a percentuali irrisorie la parte spettante di nigerini. L’arrivo sulla scena di nuovi competitor (India, Cina, Corea del Sud) ha fatto sì che la concorrenza aumentasse e con essa la possibilità per il Governo nigerino di strappare condizioni migliori. Così, nonostante le forti pressioni da parte di Parigi, il sito estrattivo di Azilik, nel centro del Paese, è stato affidato a Pechino (che ci estrarra l’uranio necessario ai suoi mega impianti nucleari). Non solo, ma per il rinnovo delle concessioni di Arlit e Akokan, Areva ha dovuto garantire il 12% dei ricavi (invece del 5,5% del passato), una massiccia ristrutturazione delle infrastrutture minerarie e delle vie di accesso.
Questo incremento dei costi, unito al crollo dei prezzi dell’uranio dopo l’incidente alla centrale giapponese di Fukushima e a una contrazione del comparto delle energie alternative, ha portato in «rosso» la contabilità del colosso pubblico francese. Ciò porterà anche a una revisione delle politiche energetiche di Parigi e aprirà a un minore interventismo transalpino nell’area saheliana? Difficile dirlo.