Il viaggio del cacao, dalle piantagioni africane alla grande distribuzione. Il mercato mondiale del cacao vale una fortuna, ma la gran parte dei profitti finisce nelle mani dei colossi che controllano il commercio del cioccolato. Adesso Costa d’Avorio e Ghana, principali esportatori africani, vorrebbero proteggere i loro contadini. Ma le condizioni nelle piantagioni restano critiche
di Stefania Ragusa
Narra una leggenda azteca che il dio Quetzalcoatl volle donare agli uomini un albero miracoloso, dai cui semi trarre un “nettare degli dei” capace di infondere forza e ricchezza. Quell’alimento portentoso si chiamava xocolatl. La pianta del cacao ha tuttora il nome che nel 1753 le impose il naturalista Carlo Linneo: Theobroma cacao (traduzione in latino dell’espressione maya kakaw uhanal), ovvero “cibo degli dei”. Dall’America Latina il cacao si è diffuso in tutto il mondo, dove ogni giorno viene gustato, sotto forma di cioccolato (suo principale derivato), da miliardi di persone.
Non sarà una materia prima strategica come il petrolio, ma il cacao negli ultimi anni è diventato un bene di prim’ordine per via dell’aumento esponenziale del suo consumo. L’Unione Europea ne è il primo importatore mondiale. Si vende cioccolato dappertutto, e in tipologie sempre più diversificate e raffinate: fondente, al latte, aromatizzato, con percentuali di cacao fino al 99%. Oltre alla tavoletta, il grosso si gioca nell’industria gastronomica con gli innumerevoli utilizzi della pasta di cacao, del cacao in polvere, senza dimenticare la trasformazione cosmetica del burro di cacao e l’interesse, sempre più marcato, per gli effetti terapeutici del cacao crudo.
Sono solo due, però, i continenti dove il cacao è coltivato in modo significativo: l’America Latina, dove crescono le varietà più pregiate, e l’Africa, dove si producono i grandi quantitativi, circa il 77% del totale mondiale, che vengono acquistati dalle multinazionali dolciarie. I due giganti africani del cacao sono Costa d’Avorio e Ghana, che da soli rappresentano il 65% dell’offerta mondiale di un mercato che vale complessivamente 100 miliardi di dollari l’anno, di cui solo 2 miliardi, il 2%, vanno ai produttori.
Emerge la “Copec”
Nel 2020 si è scatenata una guerra silenziosa. Ghana e Costa d’Avorio hanno lanciato un’iniziativa che vuole approdare a qualcosa di simile all’Opec, l’associazione dei maggiori produttori di petrolio, che regola il mercato petrolifero anche attraverso tagli della produzione. In realtà la “Copec”, così è stata battezzata l’unione tra i due Paesi, non può essere neanche lontanamente paragonata al cartello del petrolio, tuttavia la sua sola esistenza ha messo sull’attenti i grandi acquirenti di cacao. Questo, perché i Paesi aderenti hanno deciso di far pagare agli importatori una tassa di 400 dollari a tonnellata, che si aggiunge al prezzo della quotazione di borsa e ad altri extra, come il riconoscimento dell’origine del prodotto.
In un primo momento i big mondiali hanno accettato, ma poco dopo hanno dato inizio a una vera battaglia per non pagare. Anche con manovre sull’Ice, la borsa che tratta i futures di molte commodities tra cui il cacao, finalizzate a utilizzare le scorte immagazzinate bypassando così i due principali produttori. Sostenendo che la domanda globale era diminuita a causa del covid, hanno rallentato gli acquisti, annullato i contratti, preferendo attingere alle loro grandi scorte.
Guerra dei prezzi
Nel novembre 2020 Ghana e Costa d’Avorio hanno lanciato contro le multinazionali del cacao un’offensiva mediatica. Gli enti che gestiscono la filiera nei due Paesi, l’ivoriano Conseil du Café Cacao (Ccc) e il Ghana Cocoa Board (Cocobod), hanno rimproverato a Mars e Hershey’s, due giganti del settore, di comprare i loro prodotti senza pagare la sovrattassa negoziata per aiutare i contadini a uscire dalla povertà. La pandemia ha fatto scendere i prezzi del cacao e ridotto ancor più i margini di guadagno degli agricoltori. Un anno dopo, ottobre 2021, il prezzo per la campagna 2021-22 annunciato presso la sede del Fondo di stabilizzazione ad Abidjan è stato abbassato, da 1.000 a 825 franchi Cfa (1,25 euro) al chilo.
Come altre materie prime, alla base della catena produttiva il cacao è associato alla miseria; al vertice, al lusso. Tra questi due mondi si collocano le multinazionali che si spartiscono il mercato: l’americana Cargill, la singaporiana Olam, la svizzera Barry-Callebaut (Saco) e le francesi Touton e Sudcen. È una storia che si ripete e che racconta come nella globalizzazione convivano modernità e situazioni arcaiche, diritti dei consumatori e semischiavitù dei contadini, con i grandi gruppi commerciali in guerra contro gli Stati da cui estraggono la loro ricchezza.
Fiction e realtà
Anche la Costa d’Avorio ha la sua Dallas. Non parliamo di città ma di fiction. Dal giugno 2020 Canal+ ha trasmesso Cacao, una serie che ha rapidamente conquistato il pubblico e che vede intrecciarsi le storie di due famiglie rivali fra intrighi, vendette e amori contrastati. Sullo sfondo, lo sfruttamento non del petrolio ma del cacao. Tra colpi di scena ed esplosioni di cinismo e sentimentalismo, gli aristocratici Desva e i rudi e volitivi Ahitey tentano di controllare il business della materia prima nella città fittizia di Coadji. «Cacao ci porta dentro un mondo tutto sommato poco conosciuto», osserva il regista Alex Ogou, «con cui, però, praticamente ogni famiglia ivoriana ha dei collegamenti».
La Costa d’Avorio – coi suoi 2 milioni e mezzo di tonnellate registrate nel 2020 (il 45% della produzione globale) – è il primo produttore mondiale di cacao. Ci aspetteremmo che fosse anche quello con i maggiori introiti, ma così non è. Il governo, che segue un modello economico fortemente liberista, nel 2020 ha fatto una sovvenzione straordinaria ai produttori locali.
Piantagioni clandestine
Il cacao rappresenta per la Costa d’Avorio un’importante fonte di reddito. La sua produzione pone però seri problemi ambientali. Buona parte dei raccolti proviene da appezzamenti coltivati illegalmente, porzioni di foresta teoricamente protette e che invece sono state appositamente disboscate. Secondo la vulgata popolare, sarebbe proprio la brousse a fornire le fave di migliore qualità. Il Paese ha perso in sessant’anni – dall’indipendenza – il 90% delle sue foreste, e un terzo della perdita sarebbe imputabile al cacao. «Quando il prezzo di una merce come il cacao sale, aumenta anche la deforestazione», fa presente Mighty Earth, una delle ong più attive nella tracciabilità della filiera del cacao. A gestire le piantagioni clandestine sono talvolta coltivatori stranieri che si avvalgono di manodopera immigrata a bassissimo costo (soprattutto burkinabè, ma anche maliana, liberiana…). In questi casi il problema ambientale si salda con quello dei diritti umani e, in particolare, dell’infanzia.
Gli operai sono spesso poco più che bambini e le condizioni di lavoro possono rasentare lo schiavismo. Il governo ovviamente stigmatizza questo business, ma nella pratica coltivare illegalmente è meno complicato di quanto non si possa immaginare e va a beneficio di una grossa porzione del mercato locale. Fonti giornalistiche (tra cui il settimanale Jeune Afrique) parlano di un rapporto statale secretato secondo cui si tratterebbe addirittura del 40% della produzione nazionale.
Il governo ha affidato alla Société de Développement des Forêts (Sodefor) la missione di arrestare i coltivatori illegali e distruggere piantagioni e accampamenti. I guardiani Sodefor, “energici” nei loro interventi, ma discontinui, non sono riusciti ad aver ragione del fenomeno. E non solo per la mancata collaborazione della popolazione. Sembra che giochi un ruolo importante anche un dettaglio di natura fiscale: lo Stato riscuote la sua tassa sull’export di cacao a prescindere dalla provenienza dei carichi. E questo ne attenua la determinazione.
Bambini al lavoro
Come si diceva, nelle piantagioni illegali lavorano molto spesso anche ragazzini, in condizioni dure ed esposti ad agenti chimici pericolosi (come il glifosato). Per loro ci sono turni estenuanti, manioca e banane come unico nutrimento, nessuna precauzione sanitaria, giacigli all’aperto e, ovviamente, niente scuola.
Chocolate’s Heart of Darkness, un film di Paul Moreira visionabile per 1,75 euro su filmsfortheearth.org, svela questo lato oscuro. Teoricamente l’impiego di bambini è bandito da tempo. Ma, di fatto, per molti di loro sudare in piantagione in condizioni di semischiavitù è l’unica possibilità di sopravvivere. Moreira ha verificato che con 300 euro si può avere a disposizione il lavoro di un bambino per 3 anni.
Si sono mobilitate molte associazioni: nell’interesse dei bambini, dell’ambiente e delle stesse realtà produttive, che necessitano di soluzioni sostenibili per il loro business e per far crescere l’export. La scorsa estate, ben 350 sigle dedite alla difesa dei diritti umani e alla promozione di pratiche di buon governo hanno sottoscritto una lettera che delinea i passi che il governo ivoriano e anche quello ghanese dovrebbero intraprendere per incoraggiare una produzione sostenibile, supportando gli agricoltori e proteggendo le foreste.
Impegni scritti
I firmatari, tra cui l’importante istituto di ricerca ivoriano Inades e coalizioni chiave come la Convenzione della società civile ivoriana (Csci), l’Osservatorio ivoriano sulla gestione sostenibile delle risorse naturali (Oiren) e la Coalizione ivoriana degli attori per i diritti civili (Raidh), chiedono in particolare che venga attuata la politica del prezzo minimo garantito (già annunciata tanto da Accra come da Yamoussoukro) e siano previsti ulteriori accorgimenti per assicurare che il nuovo prezzo minimo fornisca reddito ai coltivatori di cacao senza incentivare la deforestazione. La lettera evidenzia inoltre come tutte le questioni sollevate siano diventate più urgenti alla luce della pandemia, che esacerba la povertà e sconvolge l’economia.
«La società civile si sta unendo per lottare per un cacao sostenibile», afferma Amourlaye Touré, rappresentante per l’Africa occidentale di Mighty Earth. «Un prezzo minimo del prodotto è un passo importante, ma i governi devono garantire che l’industria lo paghi effettivamente e che le risorse così raccolte siano davvero distribuite tra i coltivatori, molti dei quali sopravvivono con meno di un dollaro al giorno». Lo scorso novembre, a Yaoundé, durante i “Cocoa Talks” tra il ministero del Commercio del Camerun e la Ue sulla filiera del cacao, il ministro del Commercio Luc Magloire Mbarga Atangana ha osservato che la parte europea sembra non prestare molta attenzione all’aumento del reddito dei produttori. Il dibattito verteva sull’urgenza di fermare la deforestazione legata alla coltivazione, di promuovere il trattamento equo dei coltivatori di cacao e di eliminare il lavoro minorile. «La sostenibilità implica la protezione dell’ambiente. Ma implica anche la sopravvivenza dei produttori, che passa per la remunerazione», ha sottolineato il ministro.
Oggi più che mai la sfida del cacao è quella di ripensare un modello di sviluppo che metta al centro un prodotto di pregio, etico e sicuro, di cui possano godere tutti: consumatori, coltivatori, comunità locali, artigiani e gruppi industriali.
(hanno collaborato Alfredo Somoza e Céline Camoin)
Questo articolo è uscito sul numero 2/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.