Che «filibustiere»! E che «navigatore, avventuriero, contrabbandiere di stupefacenti e scrittore»! Il francese Henry de Monfreid, morto nel 1974 all’età di quasi 95 anni, che ha dato il meglio di sé specie tra il 1911 e il 1947, quando ha scorrazzato principalmente per il Mar Rosso dalla sua base tra Obock (Gibuti) – e il virgolettato di cui sopra è di suoi contemporanei – appare davvero come una figura ormai d’altri tempi. Un uomo che certo era interessato anche ad arricchirsi (il denaro «gli garantisce la libertà nelle scelte, ma non è ciò che le motiva») e che però aveva soprattutto il culto del rischio, del gesto, dell’exploit. Prestò volontariamente i suoi servigi a Mussolini, che ammirava pur essendo essenzialmente un anarchico. Aveva una sorta di conto personale aperto con il Negus. Più ancora con gli inglesi, che ora beffò clamorosamente ora ne fu ospite (… nelle loro galere keniane).
L’autore, che oltre a compulsare i documenti si è anche recato sui luoghi che videro le gesta di Abd el-Hay (tra le mille cose, Henry si era anche convertito all’islam), lo tratteggia come «l’anti-Rimbaud». Tra l’altro, Henry prese infatti dimora anche a Harawe, in Etiopia, nei pressi della rimbaudiana Harar. «Anti-Rimbaud», secondo Solinas, perché, se «prima di vivere il giovane Arthur aveva già scritto tutto, e il viaggiare per lui non sarà altro che l’esperienza della sua opera», Henry arriva invece alla scrittura (una settantina i titoli pubblicati, di cui alcuni subito anche in italiano, in epoca fascista) «dopo aver tutto vissuto» ed essere già stato a sua volta oggetto di libri. «Più in là nell’antinomia non si può andare – conclude l’autore –, pena la confusione, perché la pasta umana era la medesima, l’insofferenza per le consuetudini, una doppia vita che è insieme morte e rinascita, l’Io che diviene un Altro».
Non va poi trascurata la figura della moglie, Armgart Freudenfeld, «che è il vero avventuriero della coppia»… Ma quel che qui soprattutto ci preme sottolineare è l’atteggiamento di questo personaggio conradiano – accusato (falsamente) anche di schiavismo – nei confronti della gente del posto. Nella sua casa di Harawe era diventato «una specie di santone-benefattore per la gente dei villaggi circostanti». E, mettendo a confronto «l’inglese e l’italiano agli occhi dell’indigeno», osservava con ammirazione come «i somali vedono questi bianchi [gli italiani] forgiare, portar pesi, dissodare come gli schiavi e i paria». All’opposto degli inglesi. Di Henry un inglese stesso (!), pur nato in Abissinia, riconosce che è uno che, come riporta Solinas, «ha saputo mischiarsi, immergersi negli usi e nei costumi, divenire tutt’uno con i suoi uomini pur restandone il capo». Quando Thesiger gli chiede: «Non si sente offeso dall’essere chiamato per nome dal più misero degli straccioni?», la secca risposta è: «Niente affatto. Mi ferisce di più l’opinione che egli ha degli europei e perciò faccio del mio meglio per non essere scambiato per uno di loro»…
Neri Pozza, 2015, pp. 253, € 17,00