Il jihadismo sbarca in Mozambico?

di Enrico Casale
jihadista

di Marco Simoncelli
Da quattro mesi le istituzioni mozambicane hanno messo sotto osservazione la provincia di Cabo Delgado nel nord del Paese. Il motivo scatenante: la presenza nella zona di un gruppo di estremisti ancora non chiaramente identificato che avrebbe come obiettivo quello di destabilizzare l’area attaccando le autorità.

Il primo attacco è avvenuto il 5 ottobre scorso quando tre stazioni della polizia (Prm) nella località di Mocimboa da Praia sono state attaccate simultaneamente da una trentina di uomini armati di machete e mitragliatori AK-47. Per due giorni, la cittadina è rimasta isolata a causa degli scontri che hanno provocato 17 vittime tra assalitori e poliziotti.

Da quel momento il gruppo ha continuato a colpire con imboscate sporadiche contro pattuglie della Prm e assalti ai villaggi nella zona e nel distretto di Palma. Le informazioni da queste regioni così remote e isolate arrivano con il contagocce nella capitale Maputo (all’estremo sud del Paese), ma abitazioni date alle fiamme, morti e feriti si contano ormai a decine.

Il governo mozambicano ha subito disposto l’apertura di un’indagine approfondita, ma il lavoro d’investigazione procede nella massima discrezione per evitare allarmismi. A inizio dicembre la Procura di Cabo Delgado ha dichiarato di aver arrestato 208 persone e disposto la chiusura di tre moschee.

Ciononostante anche nel nuovo anno sono state registrati altri attacchi attribuibili allo stesso gruppo. Gli ultimi tra il 13 e il 15 di gennaio nelle località di Olumbe e Quissengue nei distretti di Palma e Nangade con sette vittime e diversi feriti.

Con le scarse informazioni in possesso, per ora è difficile delineare con certezza identità e obiettivi degli assalitori, ma dalle testimonianze e secondo le opinioni di esperti si è delineata l’ipotesi di un legame con l’estremismo a sfondo islamico. Sembra che già dal 2014 la popolazione abbia più volte denunciato la presenza nella zona di Mocimboa di giovani musulmani che praticano idee anti-establishment e l’applicazione rigorosa della sharia (legge islamica). Fra gli esperti si è diffusa l’idea che si tratti di un gruppo chiamato «Swahili-Sunna», i cui adepti praticherebbero arti marziali, si addestrerebbero nell’utilizzo di armi e si farebbero chiamare al Shabaab (letteralmente «i giovani»). Si tratterebbe di piccole cellule insediate per lo più sulle coste del Paese che avrebbero il controllo di alcune moschee.

L’Islam ha radici storico-culturali molto antiche in Mozambico risalenti al VIII secolo ed è molto presente lungo la costa e nel nord del Paese. La maggior parte dei musulmani (che si stima rappresentino il 18% della popolazione) appartiene a confraternite sufi, un’interpretazione mistica dell’Islam, ma sono anche presenti gruppi d’ispirazione wahabita, con una visione ultraconservatrice dei precetti coranici. Attraverso il Consiglio e il Congresso islamici tutti i gruppi sono riconosciuti dallo Stato, ma secondo gli esperti esistono anche organizzazioni che operano in modo meno istituzionale.

Il presunto «Swahili-Sunna» rientrerebbe fra questi, distinguendosi per la forte ostilità verso le istituzioni laiche e l’ambizione ad ergersi a simbolo di difesa delle popolazioni povere ed emarginate del nord. Non si hanno informazioni sulla leadership, ma si pensa che a capo ci siano mozambicani rientrati nel paese dopo aver studiato probabilmente in Sudan e Arabia Saudita dove il wahhabismo è più diffuso.

La scorsa settimana è circolato un video sui social network nei quali presunti estremisti esortano il popolo mozambicano alla lotta e alla difesa dell’Islam, ma le autorità mozambicane per ora non ne hanno confermato l’autenticità.
Se i timori dovessero trovare conferma, gli eventi recenti segnerebbero l’esordio del terrorismo in Mozambico. Gli organi di governo non dovrebbero sottovalutare la cosa perché nella provincia di Cabo Delgado il clima socioeconomico è di quelli in cui qualsiasi tipo di estremismo potrebbe diffondersi. Le istituzioni sono da sempre assenti e la popolazione si sente emarginata. Da qualche anno, però, Maputo è tornata a farsi vedere per i progetti minerari nella zona e per il piano di sfruttamento dei giacimenti offshore di gas naturale scoperti proprio di fronte a quelle coste, in cui sono coinvolte l’italiana Eni e le statunitensi Anadarko ed ExxonMobil. Tante promesse di lavoro e sviluppo per le povere comunità locali che per ora però hanno visto poco o nulla. È così che sorgono frustrazione e senso di tradimento. È così che l’estremismo può attecchire.

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