a cura di Stefania Ragusa
Il mondo antico non conosceva il concetto di razza. Questa parola, derivata a quanto pare dal termine alto-francese haraz, utilizzato nell’ambito dell’allevamento dei cavalli, compare in italiano nel XIV secolo e non ha a che fare con il colore della pelle. Viene utilizzato infatti dalla nobiltà, per sottolineare la propria presunta superiorità. Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVIII si producono però tre grandi cambiamenti (“rotture”) destinati a trasformare radicalmente il significato della parola razza. Si tratta de: 1) l’istituzionalizzazione della cosiddetta limpieza de sangre, come criterio per accedere a determinate cariche; 2) la scoperta e la conquista delle Americhe, con il successivo dibattito sullo status dei nativi e la teoria degli stadi di sviluppo; 3) la Riforma e la conflittualità parossistica innescata dalle guerre di religione. Da queste rotture sortisce in qualche modo l’idea che tra gli uomini intercorrano differenze essenziali e che esista una gerarchia etnosociale del potere.
Il primo a leggere la storia nei termini di un conflitto etnoculturale tra conquistatori e conquistati è stato il francese Henri de Boulainvilliers (1658-1722). Il cosiddetto razzismo scientifico comincia lì il suo cammino. Ne Il ritorno della razza (Il Mulino, 2025, pp. 170 €13) pamphlet, che prelude a un volume più impegnativo e corposo che dovrebbe essere pubblicato nel giro di un paio d’anni, lo storico Andrea Graziosi traccia il percorso che ha portato il concetto di razza a divenire uno dei principali strumenti di discriminazione ed esclusione. E ci mostra come il suo rovesciamento, la rivendicazione orgogliosa di appartenenza a una “razza” discriminata, così in auge in questo momento storico, contenga in nuce gli stessi germi di irrazionalità e pericolosità.
