di Freddie del Curatolo e Leni Frau
Abbiamo visitato uno dei più malfamati (e meno conosciuti) quartieri di Nairobi. Grigi palazzoni sovraffollati, baracche di lamiera, vicoli ingombri di spazzatura, negozi protetti da gabbie di ferro antirapina: sono le immagini desolanti di Mathare, uno degli slum più difficili di Nairobi. Dove più di mezzo milione persone conduce ogni giorno una lotta spietata per guadagnarsi da vivere. E non rinunciare ai propri sogni
Questo testo è tratto dal volume Nairobi (OGzero – Orizzonti geopolitici, 2022, pp. , euro…), da poco in libreria, firmato dal giornalista Freddie del Curatolo e dalla fotografa Leni Frau. Il libro fa parte della collana Le Città Visibili che vedrà protagoniste altre importanti capitali africane (Freetown, Bamako, Lusaka…), i cui volumi – sotto il coordinamento editoriale di Angelo Ferrari – saranno presentanti in anteprima nei prossimi numeri della nostra rivista. Da non perdere.
Entrando a Mathare dalla trafficata Juja Road, si affronta la parte alta in cui la scenografia ai lati dello stradone principale non si discosta molto dalle architetture della cintura urbana: grigi palazzoni di cinque o sei piani, pavesati da bandiere di vestiti e stracci stesi lungo i ballatoi con ai loro piedi i motivi principali del commercio. Magazzini indiani di ferramenta, empori di alimenti di uso quotidiano (farina, olio di semi, sale, caffè solubile, bibite gassate) protetti da gabbie di ferro antirapina e colorati negozi di telefonia mobile. Ci sono anche le trattorie, anzi gli “hotel”, come vengono chiamati in Kenya. Perché negli slum mangiare è un lusso che costa meno in giro che a casa, dove spesso non c’è nemmeno lo spazio per sistemare un jiko, la cucina a carbone, e due pentole. Ed è meglio così, perché quando c’è affumica il tugurio e rende l’aria irrespirabile. La principale causa di morte infantile negli slum è collegata a malattie respiratorie. Un piatto di riso e fagioli costa il corrispettivo di 25 centesimi di euro, la roba fritta ancora meno. Un pasto al giorno con qualche rinforzo è l’obiettivo della maggior parte dei residenti delle baraccopoli.
Dai libri alla realtà
A Mathare ci entri a piedi ed è normale. Difficile che un occidentale non sappia cosa lo stia aspettando. Solitamente si trova lì perché ha a che fare con organizzazioni internazionali, missioni laiche o religiose, progetti sociali di ogni genere. Oppure è uno studioso, un reporter o un sensibile e curioso turista del dolore. Mathare è la Mecca della ricerca sociale, della solidarietà, di ogni lavaggio spirituale e materiale.
Chiunque sia e qualsiasi motivo abbia per entrare, avrà bisogno di un accompagnatore, un Caronte che lo traghetti in quell’ade a cielo aperto tappezzato di ruggine e lamiera.
È preparato alla miseria, a condizioni di vita estreme, a una delle peggiori derive dell’umanità. Ha ascoltato testimonianze, storie, resoconti. Probabilmente ha letto libri, articoli, ricerche; ha visto immagini, filmati, documentari. Nella testa rimbalzano parole vuote: “ultimi”, “vulnerabili” o anche “poverini” e facili maledizioni ai potenti della Terra, al capitalismo, all’umanità in generale.
Ora si dovranno testare le reazioni della gola, dello stomaco e delle gambe, prima ancora delle scosse cerebrali, alla vista della realtà Mathare. Entra piano negli occhi e nelle vene, Mathare. Come quando si scende in cantina con la luce accesa, assorbendo i miasmi, osservando polvere e ragnatele e potendo valutare l’eventuale presenza di topi e scarafaggi. Che effetto farebbe sapere che in quella cantina ci vivono degli esseri umani?
La grande cava
Nessuno scende negli inferi a luce spenta, nessuno si fermerà a dormire in cantina. Al culmine dello stradone, che tutti chiamano Mau Mau Street, si sbuca nello spiazzo da cui si domina la valle e il battito delle palpebre scatta la sua più celebre cartolina. Tuguri di mabati, lamiera ondulata e ogni metallo riciclato e battuto. Le pareti, i tetti, le porte lucchettate.
Bunker senza finestre, contigui, ammassati in irregolare sequenza a perdita d’occhio, inframmezzati da sporadici muri di pietra e viottoli, fino all’orizzonte di palazzine poco più dignitose. Tonalità che dal grigio spento arrivano al ruggine intenso, tornano all’argento sporco e si perdono nel cielo. Sporadici muri di pietra e spazzatura. Spazzatura ovunque. Una distesa di circa cinque chilometri di lunghezza per uno e mezzo di larghezza, lungo cui scorre l’acqua e il ruscello Gitathuru che in lei confluisce. Non è uno sprofondo naturale, ma il lascito della prima grande cava della città, ricavata dalla costruzione di palazzi del governo coloniale, dimore degli europei, villette dei più intraprendenti mercanti indiani, templi, chiese e moschee. Chissà perché qualcuno lo volle chiamare mathari, “ramo” in dialetto kikuyu. Dagli anni Venti in poi, mano a mano che si materializzava lo spazio ai lati dei due corsi d’acqua, gli stessi lavoratori vi facevano il nido, senza il conforto di poter costruire le loro case con la pietra che faticosamente estraevano e caricavano su carri trainati da altri disperati come loro.
La vita tra le lamiere
Nel 1957 l’insediamento, considerato un covo di Kikuyu che avevano sposato la causa della rivolta Mau Mau, venne raso al suolo dai soldati britannici. Negli anni Sessanta, dopo l’indipendenza, agli antichi residenti che tornavano ad accaparrarsi una frattaglia di vallata, si aggiunsero altri uomini e donne che abbracciavano l’orlo dell’anarchia, dell’illegalità e dell’emarginazione. Nel decennio successivo, quando entrò a far parte della municipalità, la Mathare Valley, stretta nel fermento urbano delle Eastlands, tra Pangani, Huruma e il quartiere somalo di Eastleigh, era già un famigerato ricettacolo di malaffare d’ogni genere e produttori di veleni alcolici illeciti, grazie alle acque in grado di raffreddare le serpentine per la distillazione. Da allora gli accessi principali sono raggiunti dall’illuminazione, anche se mancano le altre infrastrutture di base.
Oggi sono in 600.000 a brulicare lì sotto. Si scende verso lo Stige e poco a poco scompaiono le donne che inglobano sgabelli molto più piccoli di loro, rimestano pentoloni di zuppa di fagioli e friggono patate e chapati, le griglie fumanti di mutura, interiora di bue, i negozietti con la base in muratura, barbieri, drogherie e macellerie, uniche con la vetrina. Sfilano via ragazzini che s’inventano campi da calcio in ogni sconnessa radura e bambine nelle uniformi scolastiche bicolori che fanno danzare i loro sorrisi nel nulla. Dopo Mabatini, che deve il suo nome alla materia principale di cui è fatto lo slum, la lamiera, e il cui toponimo è ormai sui registri e nelle mappe, ci si imbatte in Kosovo. Così la chiamarono nel 1999 gli sfollati del settore più vasto, dopo violenti scontri ingaggiati con la polizia, riconoscendosi nella lotta della piccola regione balcanica per l’indipendenza e nella guerra combattuta contro i serbi.
Fiume di morti
Siamo nelle viscere. Fino a qui i conoscitori d’Africa e i più temerari avrebbero potuto inoltrarsi senza scorta. Le baracche, involucri di esistenze desolanti, viste da vicino riflettono il volto più triste dello slum che pure nella sua profonda miseria e nei suoi drammi è vibrante, avventuroso, carico di vicende e guizzi: la rassegnazione. Schivando escrementi, galline, rifiuti, infanti e pietre che spuntano da terra, si procede per gli angiporti che conducono al fiume. Un campionario olfattivo tra i peggiori immaginabili pervade il mercato degli stracci usati, altre baracche, qualche tentativo di orto metropolitano fino al ponte di ferro che separa Kosovo da microcosmi apparentemente identici ma al soldo di altri boss, altre gang e dediti a differenti affari: a Nigeria lo spaccio, a Kampala la prostituzione, a Gitathuru il contrabbando di chang’aa, la mortifera grappa illegale. Sono anfratti in cui chi gira la notte è fatto e ubriaco, dove si regolano i conti, si prevale e si stabiliscono territori. Dove ci si sgozza, si stupra, si assale e si rapina.
Il fiume quasi ogni mattina trasporta un cadavere. Durante i caos postelettorali del gennaio 2008 ne galleggiavano a centinaia. Risalendo verso Mathare Nord, le viuzze tornano a essere stradicciole, la lamiera sposa muri di cemento e appaiono i colori delle vernici dei graffiti di artisti locali sostenuti da ong e progetti umanitari. Si leggono insegne di scuole, congregazioni religiose, dispensari e associazioni sportive. Si incontrano giovani affabilmente spacconi, vestiti decentemente, propositivi. È la Mathare che gli occidentali che la frequentano vorrebbero, quella che senza Kosovo, Nigeria e il fiume dei morti, non esisterebbe.
Questo articolo è uscito sul numero 6/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.