di Andrea Spinelli Barrile
I ghiacciai del Monte Kenya, la montagna più alta del paese, sono in rapido declino e potrebbero scomparire entro il 2030, preoccupando la comunità scientifica. Il ghiacciaio Lewis, il più grande sulla vetta, si è ridotto di quasi il 90% tra il 1924 e il 2010. Oggi, le calotte glaciali si sono trasformate in piccole chiazze di ghiaccio e neve.
I ghiacciai del monte Kenya, la montagna più alta dell’omonima nazione africana, continuano a ridursi e questo preoccupa molto la comunità scientifica: entro il 2030 la montagna potrebbe non avere più ghiacciai, una notizia che arriva appena tre mesi dopo la fine dell’anno più caldo di sempre mai registrato in Kenya, il 2024. Lo riporta il giornale online Kenyans.
Tra il 1924 e il 2010 il ghiacciaio Lewis, il principale ghiacciaio sulla vetta del monte Kenya, si è ridotto di quasi il 90%, secondo i ricercatori, e oggi le calotte glaciali sulla vetta della montagna si sono ridotte a sporadiche isole di ghiaccio. Kenyans cita Charles Kibaki Muchiri, una guida alpina keniana con grande esperienza di quell’ambiente, che da 25 anni percorre i pendii del monte Kenya, il quale ha detto cambiamenti sono innegabili: “Al momento, ci sono solo rocce con piccole chiazze di ghiaccio e neve. Un grande, grande cambiamento nel meteo”.
Gli scienziati temono che il monte Kenya potrebbe diventare una delle prime montagne al mondo, nell’era moderna, a perdere tutto il suo patrimonio di ghiaccio: “Qualche anno fa, qui c’erano delle grotte di ghiaccio. Entravamo e scattavamo delle bellissime foto” ha ricordato Muchiri, aggiungendo che “ora le grotte non ci sono più. Il ghiacciaio Lewis sta scomparendo a causa dell’eccessivo scioglimento”.

Giovedì scorso, Kenya meteorological department (Kmd, un ente governativo) ha confermato che il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre nel Paese africano. La temperatura massima media del Kenya è aumentata costantemente dal 1979, con una forte accelerazione negli ultimi due decenni, un fenomeno che gli scienziati attribuiscono alle condizioni meteorologiche sempre più estreme, dovute a una somma di molteplici fattori: il fenomeno climatico di El Niño, che ha provocato un aumento delle temperature superficiali dell’Oceano pacifico e gravi inondazioni, il dipolo dell’Oceano indiano (Iod), un fenomeno caratterizzato da squilibri di temperatura tra la sezione orientale e quella occidentale dell’oceano, che sta avendo un ruolo pesante sulla crisi climatica in tutta quell’area.
Il timore è che il Kenya possa perdere una delle meraviglie naturali più iconiche del Paese, con gravi ripercussioni che vanno molto oltre quelle sull’economia del turismo montano: il monte Kenya, uno stratovulcano estinto chiamato “Kerenyaga” in lingua gikuyu, è la montagna più alta di tutto il Kenya, la seconda più alta d’Africa dopo il Kilimanjaro, e si trova poco a sud dell’Equatore, 160 chilometri a nord-est di Nairobi. L’intero monte, il suo gruppo montuoso e la regione circostante sono inclusi nel Parco nazionale del Monte Kenya, dove c’è anche una stazione di monitoraggio atmosferico: il sistema di cime, sette picchi frastagliati, ospita in totale 12 ghiacciai. La perdita di questi ghiacciai potrebbe sconvolgere completamente gli ecosistemi locali, minacciare le fonti d’acqua con ripercussioni che vanno molto oltre l’area del Parco Nazionale: i ghiacciai del monte Kenya costituiscono una fonte primaria di acqua dolce per le comunità vicine e la loro scomparsa potrebbe innescare crisi ambientali più ampie ma anche crisi migratorie, perdita di biodiversità. Secondo gli esperti, i rapidi cambiamenti sul monte Kenya sono una testimonianza visibile dell’accelerazione della crisi climatica.

Nella fascia bassa del monte c’è una foresta che diventa foresta montana verso i 2.000 metri. Ai 2.500 metri si incontra una fascia di bambù, dai 3.300 metri brughiera e tundra afro-alpina e deserto dai 3.500 fino in vetta, la più alta si trova a 5.199 metri. Fino alla fascia di bambù vivono tutti i famosi “big five” (leone, elefante delle foreste, bufalo, leopardo, rinoceronte) e una gran varietà di altri animali, immersi in una vegetazione estremamente rigogliosa, specialmente nelle zone più basse della foresta. Ma non è tutto oro quello che luccica e la crisi climatica ne è solo una delle criticità: attività come la deforestazione non autorizzata (ma c’è anche quella autorizzata), l’estrazione abusiva di carbone (ma c’è anche quella legale), bracconaggio e pascolo abusivo sono solo alcuni dei fattori di crisi di cui l’uomo è direttamente responsabile. Si tratta di attività che incidono fortemente sui corsi d’acqua (la portata del fiume Tana che si sta velocemente riducendo ne è una cartina tornasole importante).
Sul monte, da secoli, vivono i kikuyu, che credono che il monte sia la casa di Ngai, il supremo dio eremita della religione monoteistica delle tribù Kamba, Kikuyu e Maasai. Data la tradizione orale di queste comunità, ciò che sappiamo del monte Kenya risale a non prima del 1849, quando il missionario Johann Ludwig Krapf, tedesco, per primo annotò di aver visto questa montagna. Per la prima scalata però c’è voluto mezzo secolo ancora, con una spedizione del geografo britannico Halford Mackinder nel 1899.

Ma il monte Kenya custodisce anche storie drammatiche, di grande dolore: durante la seconda guerra mondiale infatti il monte fu scalato da tre soldati italiani che erano stati internati come prigionieri di guerra nel campo di Nanyuki, situato alla base della montagna. Fuggiti dal campo, scalarono il terzo picco (punta Lenana, 4.985 metri) per poi tornare volontariamente al campo di prigionia: la loro vicenda è narrata nel libro autobiografico Fuga sul Kenya (scritto originariamente in lingua inglese, la prima edizione italiana è del 1948) scritto da uno di loro, Felice Benuzzi, e nel più recente Point Lenana, di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara. Benuzzi, che nel 1941 era un funzionario pubblico coloniale italiano ad Addis Abeba, in Etiopia, nel suo libro racconta che, spinto dalla monotonia della vita da prigioniero, fu ispirato da un’idea improvvisa: fuggire dal campo, scalare la montagna, mettervi la bandiera italiana in cima e tornare indietro. Con lui salirono il medico Giovanni Balletto ed Enzo Barsotti, che durante la spedizione accusò un problema cardiaco fermandosi a quota 4.200 metri. Fuggiti dal campo il 24 gennaio 1943 vi fecero ritorno il 10 febbraio ma si riconsegnarono agli ufficiali inglesi, rivestiti e ripuliti, soltanto il giorno dopo. Condannati a 28 giorni di lavori forzati, furono amnistiati dopo una settimana dal comandante inglese che aveva apprezzato la loro impresa sportiva.