di Angelo Ferrari – Agi
Il continente si è affollato, assoggettato a interessi di ogni tipo: politici, economici, commerciali, anche ideologici e addirittura religiosi. E accanto a Stati Uniti e Gran Bretagna, sono oggi sul campo le economie emergenti del continente asiatico. Più la Russia di Putin
Un tempo con il colonialismo europeo classico era più semplice orientarsi. Le nazioni che componevano l’Africa erano mappate e separate secondo la storia dettata da Francia e Gran Bretagna, cioè semplicemente secondo l’appartenenza a una delle due potenze durante l’occupazione coloniale. Rimaneva anche qualche residuo dell’antica potenza coloniale portoghese, ma si trattava di uno scampolo – appunto: il lascito di una Storia anacronistica che non poteva che finire di lì a poco.
Per la verità c’era anche un’altra grande divisione che gravava sul continente, quella cioè che separava in due il mondo tra est e ovest, tra le grandi potenze occidentali d’Europa e Nordamerica da una parte, e le potenze dell’ex impero sovietico dall’altra. La prima era una divisione concreta, materiale, di interessi. La seconda una divisione ideologica che impattava marginalmente sulla vita degli abitanti del continente,
Poi la “solita” storia si è fatta più complessa e ingarbugliata. L’Africa si è affollata, assoggettata a interessi di ogni tipo: politici, economici, commerciali, anche ideologici e addirittura religiosi. Francia e Gran Bretagna, le grandi potenze coloniali che lo hanno dominato per tutto il secolo passato oggi hanno perso qualche posizione e ultimamente, in particolare la prima è sottoposta alla pressione anticoloniale.
Si confermano poi le economie emergenti del continente asiatico: in primo luogo, ovviamente, la Cina. Ma dell’Estremo Oriente anche India, Malesia, Indonesia, Corea del Sud, Giappone investono prepotentemente nel continente. A queste si aggiunge la Russia che è tornata a cercare posizioni in Africa soprattutto son una serie di accordi di natura militare o attraverso forniture di armi e l’invio di mercenari, quelli della Compagnia Wagner, che svolge il lavoro sporco per conto di Mosca.
Anche gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia hanno incrementato la loro presenza sul piano economico e commerciale. Che dire delle potenze arabe, in particolare le Monarchie del Golfo, in primo luogo Qatar, Emirati Arabi, Arabia Saudita, con la loro grande capacità di penetrazione finanziaria. E, last but nost least, la Turchia, che vende di tutto e costruisce infrastrutture.
Nel dicembre scorso il presidente turco Erdogan ha riunito a Istanbul il 19 dicembre 2021, il Partenariato rafforzato per lo sviluppo e la prosperità comuni Turchia-Africa, rivolgendosi ai capi di stato di 16 nazioni africane, 102 ministri, i rappresentanti di Unione africana (Ua) e della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), tutti con l’obiettivo di approfondire i legami economici e militari con la Turchia che, dal canto suo, aspira a ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Un bel caos. Cosa attira tutte queste potenze in Africa? E perché ciò avviene solo ora, all’alba del terzo millennio? Ed è giusto porsi queste domande proprio nel giorno dedicato al continente africano.
La risposta più evidente a queste domande è che l’Africa si appresta, ancora una volta, a finanziare con le sue materie prime il prossimo assetto geopolitico del pianeta. In sostanza l’Africa si prepara a essere, come è già avvenuto in passato, un grande “serbatoio” di risorse invece di diventare “mercato”, con una popolazione in possesso di un potere d’acquisto e una capacità di esportazione di prodotti manufatti e non solo di materie prime.
L’Africa è il continente più grande dal punto di vista territoriale e al suo interno è quasi sconosciuta l’agricoltura intensiva, in sostanza si tratta di un territorio vergine che potenzialmente può avere una produttività formidabile. Proprio per capitalizzare queste possibilità oggi è diffuso, soprattutto in Africa, il fenomeno del cosiddetto land grabbing, letteralmente “accaparramento delle terre” da parte di grandi imprese multinazionali, dell’agrobusiness, o addirittura da nazioni.
Dal punto di vista minerario, poi, l’Africa è una sorta di forziere: vi sono minerali tradizionali, quelli che hanno letteralmente avviato e sostenuto lo sviluppo come lo conosciamo oggi, cioè petrolio, carbone, oro, rame, ferro, bauxite, ma anche minerali strategici come cobalto, litio, cassiterite, terre rare, uranio.
Questo quadro si è delineato negli ultimi due anni accentuando ulteriormente le peculiarità che vedono perpetuarsi le dinamiche imposte al continente dall’esterno, i cui interessi sono stati ancora più accentuati dall’anomalia pandemica – ora dalla guerra ucraina – rendendo sempre meno possibile lo sviluppo nella direzione di divenire “mercato” di consumatori.
Se all’epoca del colonialismo il continente africano ha reso possibili le varie rivoluzioni industriali, ora sta finanziando la green economy, la nostra rivoluzione verde o transizione ecologica che dir si voglia, senza che le economie occidentali si preoccupino delle condizioni di milioni di lavoratori-minatori, spesso minori, che ogni giorno per misere paghe si affannano a estrarre quelle terre rare di cui tanto ha bisogno il mondo sviluppato, senza le quali si fermerebbe.
Ma c’è un’altra questione che assilla i paesi africani: lo sviluppo è impossibile senza energia. Applicare gli standard occidentali per la transizione ecologica, con fonti di energia rinnovabili, potrebbe rallentare l’espansione economica di molti paesi dell’Africa subsahariana. Durante la Cop26 i paesi africani sono stati chiari: “L’Africa non accetterà di limitare il proprio sviluppo economico per sostenere la lotta al cambiamento climatico”. E come dargli torto, visto che il continente contribuisce in maniera irrisoria al riscaldamento globale.
Non sembri una boutade. Se l’Africa godesse di un reale potere d’acquisto, potrebbe costituire un mercato di oltre un miliardo di persone in grado di assorbire anche i prodotti europei attenuando la crisi economica. La Cina, ormai potenza di riferimento globale, grazie al lavoro (molto economico e senza diritti) dei suoi lavoratori negli ultimi decenni, è la più decisa avversaria di questa evoluzione, perché quegli artefici dello sviluppo economico cinese chiedono ai loro dirigenti un benessere dello stesso livello di quello europeo, cioè: cibo, acqua, energia.
Dunque Pechino ha bisogno di terre e minerali, strategici e non, possibilmente estratti con un costo del lavoro molto basso. L’Africa e gli africani assolvono perfettamente a questo compito. Ecco perché alle potenze mondiali che si affannano sul suo territorio conviene che l’Africa continui a essere un “serbatoio” di risorse, piuttosto che diventare un “mercato”.
Angelo Ferrari – Agi
Foto di apertura: Marco Gualazzini