Il Senegal ha scelto Baamum Nafi (ovvero, Il padre di Nafi) del regista Mamadou Dia come lungometraggio da inviare agli Oscar.
Il film racconta i contrasti tra due fratelli, l’imam Tierno e l’aspirante sindaco Ousmane (il padre di Nafi), in un villaggio di confine, dove materialmente si consuma lo scontro tra vecchie e nuove generazioni e, soprattutto, quello tra due Islam: uno, profondamente radicato nella tradizione senegalese, tollerante e mistico; l’altro d’importazione, integralista, violento e determinato a espandersi. Non è una storia vera ma altamente verosimile: una vicenda possibile, contemporanea, narrata con introspezione e zelo da documentarista.
Baamum Nafi è stato presentato in anteprima mondiale al Festival del film di Locarno 2019 ed è ancora in cerca di distribuzione negli Stati Uniti. Dopo Felicite del 2017 e Atlantics del 2019 è il terzo film che il Senegal propone agli Oscar.
Mamadou Dia è senegalese, ha studiato cinema a New York e adesso vive negli Stati Uniti. Noi lo abbiamo intervistato.
Come mai ha scelto affrontare proprio questa tematica e di ambientarla in Senegal? «Il mio Paese finora è stato risparmiato dal terrorismo, ma questo non vuol dire essere al sicuro e, soprattutto, non solleva dalla responsabilità di interrogarsi su una questione che riguarda il mondo intero. La domanda chiave, quella a cui ho provato a rispondere: come può accadere? Cosa scatta nella testa delle persone? Quali dinamiche fanno sì che tranquilli villaggi vengano presi dai jihadisti? Pensiamo a quello che è accaduto a Timbuktu: una città tranquilla, con una grande tradizione culturale, oggi in mano ai jihadisti. Il Senegal è un paese aperto, dove è normale che il figlo di un imam (quale io sono) studi il Corano e frequenti la scuola francese. Sono cresciuto celebrando Eid insieme a Natale e Capodanno. Non era una modalità eccezionale. Accadeva in moltissime famiglie, un segno del clima politico e religioso storicamente tollerante del Senegal. L’elezione di Léopold Senghor, poeta ecattolico, come primo presidente in un Paese che ha oltre il 90% di abitanti musulmani, è un ulteriore segno. Non possiamo più però dare tutto questo per scontato. Dobbiamo confrontarci con i problemi che definiscono la nostra epoca. Sento l’urgenza di coinvolgere in questa riflessione i miei concittadini. Anche per questo ho ambientato la vicenda qui».
Il film però parla anche ai non senegalesi «Sì. In Europa e negli Stati Uniti c’è una crescente paura e demonizzazione dell’Islam e dell’altro e io ho provato, con questo lavoro, ad aprire una finestra attraverso cui rendere possibile l’osservazione di una società percepita come molto lontana. In realtà, al di là delle specificità culturali del contesto, le vidende narrate rimandano alla natura umana, ai desideri e alle ambizioni contrastanti che muovono tutti gli uomini».
Quanto il passato da giornalista influenza il suo modo di essere regista?
«Il giornalismo è stata per me un’ottima scuola di regia. Insegna come osservare il mondo, aiuta a fare una chiara distinzione tra fatti e opinioni. Il cinema è in qualche contiguo ma è allo stesso tempo uno strumento opposto. È un mezzo che pone al centro il narratore. I film come le notizie tendono ad allinearsi lungo estremi polarizzati rivolti a un pubblico specifico e alle loro aspettative. Quando si tratta di Africa, in genere, si finisce con inquadrare luoghi senza speranza o celebrare eroi resilienti. Tra questi due estremi, afro-pessimismo e ottimismo nero, c’è una molteplicità di storie, sfumate e complesse, che attendono di essere raccontate».
Com’è stata la transizione dal Senegal agli Stati Uniti?
«New York all’inizio sembra troppo grande, ma poi rapidamente si riesce a trovare la propria strada. Al master di cinematografia che ho frequentato avevo compagni che provenivano da tutto il mondo. Ho imparato tanto da loro e dai miei insegnanti. Il Senegal però rimane il mio Paese e la mia meta. Il Fulah-Pulaar la mia lingua. Dopo questi anni di formazione, voglio tornare e fare la mia parte sulla scena cinematografica emergente a Dakar e in Africa».
(Stefania Ragusa)