L’Africa sta pagando un tributo altissimo al terrorismo islamico. È giusto rilevarlo in un momento in cui i riflettori dei grandi media sono rivolti (anche giustamente) verso l’Europa, la Francia, Parigi.
La violenza jihadista è scoppiata per la prima volta nel continente nel 1991 in Algeria. Dopo che il governo si rifiuta di riconoscere il risultato elettorale favorevole agli islamisti, il Gruppo Islamico Armato scatena una durissima campagna di terrore che porterà a una violenza indiscriminata sia da parte degli islamici sia da parte governativa. Tra gli episodi più importanti il massacro di Hai Rais il 23 settembre 1997 con più di 500 vittime, e quello di Bentalḥa il 29 agosto 1997 con oltre 250 vittime. Anche gli stranieri sono stati un bersaglio e oltre 100 di loro, uomini e donne, sono stati uccisi in Algeria.
La seconda nazione duramente colpita è la Somalia. Paese di tradizione islamica moderata, si affida al governo delle Corti islamiche nel 2004 per riportare un po’ di stabilità in un contesto di guerra civile tra le fazioni legate ai clan. Il governo islamico però non è accettato dalla comunità internazionale (soprattutto dagli Usa allora impegnati nella campagna contro al Qaeda) che trovano nell’Etiopia un alleato locale pronto a intervenire. L’invasione da parte delle truppe di Addis Abeba scalza dal potere le Corti islamiche, ma radicalizza anche il conflitto. Alcune frange jihadiste si organizzano nella formazione al Shabaab che a partire dal 2007 inizia a terrorizzare le regioni meridionali della Somalia. In origine legata ad al Qaeda, poi, recentemente, affiliata allo Stato islamico, al Shabaab a una visione estrema dell’Islam unisce un nazionalismo anti etiopico e anti occidentale. La crisi si è andata progressivamente estendendo anche ai Paesi confinanti con stragi in Kenya e Uganda, colpevoli di aver sostenuto l’intervento di Addis Abeba.
Il jihadismo ha colpito duro anche nella fascia saheliana e mediterranea. In Libia, caduto il regime di Muammar Gheddafi, la guerra civile è continuata tra le fazioni legate ai clan locali e tra le due principali regioni: la Tripolitania (con un Governo islamista) e la Cirenaica (con un esecutivo più «laico»). In questo contesto dominato dall’instabilità, lo Stato islamico (o, meglio, alcune fazioni che ad esso hanno aderito) ha creato proprie basi a Sirte e da lì sta lentamente espandendo la propria zona di influenza. Vani sono stati finora i tentativi di creare un Governo di unità nazionale in grado di contrastarne l’espansione.
Dalla crisi libica è nata anche quella maliana. I tuareg maliani, da sempre discriminati nel loro Paese, si erano rifugiati negli anni Novanta e Duemila, in Libia. Qui erano stati protetti da Gheddafi. Caduto il rais libico, gran parte dei tuareg sono rientrati in Mali portando con sé parte dell’arsenale gheddafiano. Qui, a partire dal 2012, si è scatenata una dura guerra civile con il Governo di Bamako. I tuareg, inizialmente non legati alle fazioni jihadiste, hanno nel tempo stretto alleanze con gruppi dell’islamismo fondamentalista. Solo l’intervento francese è riuscito a tamponare la crescita di questo movimento. Ma la crisi non si è ancora risolta completamente.
Terminiamo questa carrellata con la Nigeria. Qui a partire dal 2002 si sviluppa Boko Haram, un movimento islamista jihadista che sfrutta le tensioni tra il Nord islamico e il Sud cristiano animista per acquisire sostegno logistico e appoggi politici. Gli attentati organizzati dai miliziani di Boko Haram però uccidono indifferentemente cristiani e musulmani. Per contenere la loro espansione, nasce un’alleanza tra Stati saheliani. L’offensiva militare ha contenuto le azioni terroristiche, ma non le ha eliminate. Boko Haram è in un angolo, ma non è ancora sconfitto.
Fiammate di terrorismo si sono accese anche in Tunisia. Oltre ai sanguinosi attentati al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse, il Paese sta conoscendo un crescendo di attacchi alle forze dell’ordine da parte di miliziani jihadisti che si infiltrano nel Paese dalla Libia e dall’Algeria.
In questo contesto generale, a soffrirne sono soprattutto le popolazioni africane costrette alla fuga e soggette a violenze inenarrabili. Ampie zone del continente sono poi ormai off limits. Si tratta di regioni bellissime e, un tempo, simbolo di tolleranza e dialogo tra culture diverse. Pensiamo a Timbuctu, alle rovine romane in Libia, alle tombe dei santi sufi somali. La loro chiusura è una ferita all’anima non solo dell’Africa.