Il piccolo regno di Paul Kagame

di AFRICA

A ventiquattro anni dal genocidio, il Ruanda appare come un modello di sviluppo per l’Africa. L’economia corre, la capitale Kigali è una città moderna. E il presidente viene celebrato come un abile stratega. Le apparenze ingannano.

Nella primavera-estate del 1994, i giovani guerriglieri dell’Fpr, il Fronte patriottico ruandese che liberò il Paese dal regime del presidente Habyarimana, erano un esercito anomalo per gli standard del continente africano: disciplinati, professionali, eseguivano gli ordini, portavano le armi senza ostentarle, non chiedevano mance, sigarette, non si abbandonavano ai saccheggi ed esercitavano il loro potere con discrezione. Chi li incontrava non poteva non pensare che il nuovo Ruanda partiva con il piede giusto.

Paese modello

Erano i prodromi del Paese che sarebbe nato su uno dei più drammatici eventi del Novecento, il genocidio di quasi un milione fra Tutsi e Hutu moderati in uno dei più piccoli Stati africani. Impressione suffragata, agli occhi di chi oggi visita il Ruanda a distanza di quasi venticinque anni da quegli eventi. Kigali nemmeno sembra una capitale africana. È pulita, non ha depositi selvaggi di spazzatura neanche in periferia, è dotata di ampie strade e rotatorie in cui la precedenza viene rispettata, e un traffico ben regolato. Ed è completamente coperta da wi-fi. Insomma, una città che funziona.

Kigali è il biglietto da visita di un Paese che negli ultimi dieci anni è cresciuto con una media annua del sette per cento. Attratti dalle prospettive di sviluppo, molti emigrati hanno fatto ritorno in patria e impiantato imprese, fiduciosi nella stabilità politica assicurata dal presidente Paul Kagame, lo stesso che nel lontano 1994 comandava quell’anomalo esercito di guerriglieri.

Consenso totale

Da allora, Kagame, seguendo quella sorta di copione della “migliore” tradizione africana, non ha mai lasciato il potere. Fino al 2000 ha guidato il Paese come capo dell’esercito, e da allora è rimasto in carica grazie a veri e propri plebisciti ai quali è difficile dare completamente credito: nelle ultime sette tornate elettorali, che si sia trattato di presidenziali, di legislative o di referendum, l’affluenza alle urne non è mai scesa sotto il 96%, come pure le preferenze per Paul Kagame, addirittura in crescendo fino a rasentare, alle ultime presidenziali, il 99%.

Ma il dato più significativo è quello del referendum del 2015, quando il presidente ha ottenuto il 98% dei voti a favore di una modifica costituzionale che gli consente di non avere praticamente limiti nei mandati presidenziali e che lo manterrebbe al potere fino al 2034, quando avrà 87 anni. Le percentuali che a ogni consultazione Kagame – alleato degli Usa, inviso alla Francia – raccoglie sono impressionanti, specie se si considera che appartiene alla minoranza tutsi, il 15% a fronte di una larga maggioranza di Hutu che sfiora l’85%.

Senza rivali

L’opposizione in Ruanda c’è, ma viene regolarmente resa inoffensiva. Certi oppositori sono stati inseguiti anche all’estero. È il caso dell’ex capo dei servizi segreti Patrick Karegeya, che nel gennaio del 2014 fu misteriosamente ucciso in una camera di hotel a Johannesburg, Sudafrica. La polizia locale ha appurato le cause della morte: strangolamento. Non ci sono prove sui mandanti, ma Karegeya era scappato in gran fretta dal suo Paese dopo aver espresso critiche al potere di Kagame.

Nelle ultime elezioni, agosto 2017, solo due esponenti di secondo piano hanno sfidato il presidente uscente: il leader del quasi inesistente Partito democratico Frank Habineza, e un eccentrico candidato verde-indipendente, Philippe Mpaymana. Entrambi hanno ottenuto consensi irrisori. Più grave il caso di Diane Rwigara, fondatrice del Movimento di salvezza del popolo: nella primavera scorsa si era candidata alla presidenza, ma ha dovuto ritirarsi dopo che il web è stato inondato di foto, quasi certamente manipolate, che la ritraevano nuda e in pose provocanti. Fatto, questo, ancor più grave per un Paese che si vanta di avere il maggior numero di parlamentari donne di tutta l’Africa e di molti Paesi europei. Oggi Diane Rwigera è accusata di insurrezione insieme alla madre e alla sorella. Il processo si è aperto a ottobre.

Paese double face

Insomma il Ruanda è contradditorio, un Paese con intollerabili violazioni della democrazia e dei diritti umani, e allo stesso tempo con un benessere e una capacità organizzativa e imprenditoriale straordinari. I dati sono formidabili per un Paese africano: il reddito pro capite annuo è passato in quindici anni da 250 dollari a 700. L’acqua potabile era accessibile al 45% della popolazione, oggi siamo sopra il 70%. L’aspettativa di vita era di 35 anni, oggi è di 65.

Ma per giudicare il benessere e lo sviluppo ruandese bisogna varcare la frontiera con la Rd Congo. Solo così si capisce da dove viene la ricchezza del Ruanda e in che modo viene sottratta al grande e ricco vicino. Le province più interessate sono il Nord e il Sud-Kivu, regione ricchissima di minerali come oro, coltan e, richiestissime sui mercati internazionali, terre rare. Da sempre quest’area è mantenuta in uno stato di guerra perpetua, combattuta da milizie in molti casi sostenute dal Ruanda, da altre potenze regionali o da lobby economiche e politiche locali e internazionali. In questa lotta senza quartiere per i minerali, il Ruanda ha combattuto con determinazione e si è aggiudicato posizioni di rilievo. Basti ricordare leader guerriglieri sostenuti da Kigali che hanno fatto la storia recente di questo territorio, come Laurent Nkunda o Bosco Ntaganda, quest’ultimo ora sotto processo al Tribunale dell’Aia.

Affari sporchi

Oggi, visitare questa regione congolese significa alzare un velo sulla parte oscura del Ruanda. Il territorio è punteggiato da miniere clandestine, vere e proprie ferite marroni di fango nel verde della foresta pluviale. In queste miniere illegali faticano, in condizioni di quasi schiavitù, giovani locali e profughi a un costo del lavoro quasi nullo. Il minerale è poi venduto sul mercato libero e pulito di Kigali e da lì immesso nel commercio internazionale.

Le multinazionali del settore hanno tutte rappresentanti o delegati commerciali, spesso in veste non ufficiale, nella capitale ruandese, dove arrivano in continuazione pick-up carichi di terra mista a coltan, cassiterite, niobio, oro. Il passaggio principale è la strada che collega Goma, capitale del Nord-Kivu, a Kigali, una vera e propria arteria che nutre il corpo del Ruanda. Senza controlli di frontiera, senza tasse doganali. Eppure, nonostante questa “flebo” energetica, il “Paese delle mille colline” ha una debolezza strutturale e strategica con la quale deve fare i conti. In primo luogo resta un Paese piccolo (grande poco meno della Lombardia), profondamente rurale, dove la popolazione cresce a ritmi demografici inarrestabili. I suoi tredici milioni di abitanti faticano a mantenere produttive le proprietà familiari e arrivano a coltivare, con rese minime, anche le sommità delle colline o i versanti più scoscesi. Insomma il Ruanda è pieno come un uovo e sta letteralmente scoppiando. I figli di quei disciplinati guerriglieri che fermarono il genocidio rischiano di non avere un futuro roseo.

(di Raffaele Masto)

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