A Lampedusa arrivano in lacrime, le foto dei figli sullo schermo del cellulare, i loro volti stampati sulle magliette: sono donne della Tunisia devastate dal dolore, alla disperata ricerca dei loro ragazzi dispersi nel Mediterraneo. Cercano la verità, brandelli di corpi, una salma su cui piangere
di Federica Tourn – foto di Stefano Stranges
Layla si muove piano nella piccola cucina, volto struccato e capelli sciolti, liberi dal velo. Oggi si celebra la nascita del Profeta, tutte le sue amiche sono impegnate in famiglia, ma lei è sola. I fuochi sono spenti, la tavola è sgombra, non c’è nessuno per cui cucinare. «Anche se lui è sempre con me», dice indicando una grande fotografia incorniciata alle sue spalle, che la vede ritratta insieme al figlio Youssef. Una bella foto, che li ha colti entrambi sorridenti e vestiti elegantemente in un’occasione di festa. Un momento felice, che ora risplende lugubre sulla stanza spoglia come un unico occhio lucente, a illuminare di ricordi un presente segnato dall’assenza.
Youssef è scomparso in mare il 31 luglio 2020. «Aveva 29 anni, un mese e 29 giorni quando è partito», puntualizza Layla. Da allora, da quando è salito su un barcone per l’Italia, non ne ha più notizie: suo figlio pare inghiottito dal nulla.
Domande senza risposta
A Lampedusa arrivano in lacrime, le foto dei figli sul display del telefonino, i loro volti sorridenti stampati a colori sulle magliette: sono sette madri e quattro sorelle, vengono dalla Tunisia a chiedere che fine hanno fatto i loro ragazzi, vogliono sapere «la verité». Chi ha avuto la conferma della morte sostiene le altre che ancora sperano, nonostante tutto, di ritrovarli vivi.
Samia cerca Fedi, 21 anni, partito il 17 febbraio 2021 con un cugino. Racconta che dalla barca i due vedono la terra ormai vicina, si buttano in acqua per raggiungere la spiaggia. Nuotano per più di sei ore, Fedi è sempre davanti. L’altro, estenuato, trova uno scoglio e si aggrappa; lo salveranno di lì a poco. Fedi non lo trovano più. Di lui restano solo i documenti, conservati dal cugino nella custodia del cellulare. «Perché li teneva lui?», si arrovella la madre. «Quando gliel’ho chiesto, mi ha risposto che Fedi aveva soltanto un costume da bagno senza tasche, mentre lui indossava dei pantaloni; ma nelle foto del salvataggio è svestito». Domande senza risposta, che accrescono il tormento.
Tre giorni prima si era imbarcato anche il figlio di Gamra, Azhar, malato di leucemia: sa che è morto, l’ha riconosciuto guardando un video del naufragio. «Era l’unico senza capelli, li aveva persi con la chemioterapia», spiega. «Era andato in Italia per farsi curare», aggiunge Gamra. «Lascia una bambina di sei anni e senza una dichiarazione ufficiale della morte non riesco a ottenere il sussidio per mantenerla».
Lo strazio del riconoscimento
Il 30 novembre 2019 sono scomparsi i due fratelli di Marwa, Enis e Akram. Tempo dopo, in un servizio di Rai News sulle morti nel Mediterraneo, alla ragazza pare di riconoscere un tatuaggio su una delle vittime. Grazie a un’avvocata riesce a rintracciare il luogo della sepoltura, il padre fa il confronto del Dna: è Akram. È a Palermo, per la prima volta Marwa ha potuto pregare sulla sua tomba. Ora vuole riportarlo a casa, tumularlo in Tunisia. «Aveva moglie e figlie in Germania: stava aspettando i documenti per poterle raggiungere, ma non ha resistito e si è imbarcato», ricorda ora. Di Enis, invece, non si hanno notizie.
Anche Jalila ha perso i due figli in quella tragica notte di novembre. Con l’aiuto dell’avvocata di Marwa, i corpi dei ragazzi sono stati individuati anche in questo caso grazie ai tatuaggi; Jalila è riuscita a riportarli in Tunisia con il sostegno del collettivo italiano Carovane Migranti, ma ancora non si dà pace. «La barca è naufragata nei pressi di Mazara del Vallo e i corpi sono stati ritrovati due mesi dopo vicino a Messina: a una distanza di cinquecento chilometri», dice. «Quel giorno il mare era calmo e loro sapevano nuotare. Voglio sapere cos’è successo davvero».
Hamdi, il figlio di Awatef, era un meccanico di 26 anni, lavorava sui pescherecci che trasportano disperati. «È l’ultima volta», aveva promesso a sua madre, ma da quel viaggio verso Lampedusa lei non l’ha più sentito. «Mi hanno detto che era stato arrestato, poi che era in un centro di accoglienza a Brindisi», spiega concitata. «Ho saputo che è riuscito ad arrivare in Italia il 25 luglio 2020. Poi, dopo due giorni, le comunicazioni si sono interrotte». Le ipotesi su quel che è successo sono tante, ma nessuno ha una parola certa.
Cadaveri non identificati
L’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha registrato 18.500 morti o dispersi nel Mediterraneo dal 2014 a oggi, oltre mille solo quest’anno; più della metà non ha un nome e molti di quelli che cercavano di arrivare a Lampedusa non sono oggi che un numero su una lapide nei cimiteri dell’agrigentino.
Fatma ha portato con sé la maglietta del figlio, disperso insieme al fratello nel 2011. «Non la lavo da dieci anni, sento ancora il suo odore», dice portandola al volto. La consegnerà insieme ad altri oggetti appartenuti ai due ragazzi alle dottoresse del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense di Milano, venute a Lampedusa per incontrare queste donne e prelevare un campione del loro Dna, in modo da poterlo confrontare con i dati delle vittime ancora non identificate.Indumenti, pettini, spazzolini da denti, tutto può essere utile. La procedura della raccolta e delle informazioni ante mortem e del materiale genetico è stata istituita dal Commissario straordinario per le persone scomparse dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, in cui perirono in 368 davanti alle coste di Lampedusa. Un’analisi paziente e minuziosa a caccia di un indizio che possa restituire identità e dignità ai tanti corpi senza nome perduti nel Mediterraneo. È come scandagliare nel buio con la lanterna: «Il problema è che non sempre viene disposta l’autopsia sui corpi recuperati dal mare o, se viene fatta, non è detto che il medico legale prelevi i dati indispensabili per un’identificazione», spiega Debora Mazzarelli, antropologa del Labanof. «Nel caso in cui i dati risultino compatibili, comunque, si procede con l’esumazione del cadavere».
Qualcosa che non torna
«Il y a quelque chose», ripete Awatef con gli occhi seri fissi nei miei. C’è qualcosa che non torna nella scomparsa di Hamdi, lei ne è convinta. C’è sempre qualcosa di strano nella morte prematura di un figlio, nelle telefonate sciacalle che ti suggeriscono ogni volta una cosa diversa, nelle email che promettono nuove rivelazioni. Qualcuno dei compagni di viaggio dice che Hamdi si è buttato dal peschereccio, altri che è stato arrestato come trafficante prima ancora di toccare terra. Dal canto suo, la Procura di Agrigento ha chiuso la pratica: il giudice sostiene che non è sicuro che Hamdi sia partito dalla Tunisia su quella barca.
Sua madre però non si dà pace, troppe contraddizioni la tormentano: «Forse è morto, magari l’hanno ucciso durante una rissa sul barcone o forse è in prigione ma non può chiamarmi. Non lo so. Io penso che sia in prigione», conclude scuotendo la testa.
Per una madre è meglio immaginare un figlio in carcere che in fondo al mare. «Da quando è partito non dormo più», si lamenta Awatef. «Tutti si sono disinteressati di lui, non esiste più per nessuno». Tranne che per lei, e per suo padre, che un anno fa dalla Tunisia è andato fino dal giudice italiano pregandolo di aiutarli, o per sua sorella, ferma in silenzio accanto alla madre, o per il fratello, che le ha raggiunte da Marsiglia col volto che pare una maschera di cera. Awatef parla sempre, chiede, rivendica, con una cartella di foto e documenti stretta sotto il braccio. Nel porto vecchio di Lampedusa ha visto un relitto di peschereccio affondato, uguale a quello su cui è salito Hamdi: in un lampo di speranza vorrebbe bussare alla porta della Guardia Costiera e cercare fra le carte traccia dell’arrivo di quel figlio sventurato, una notte di luglio della scorsa estate. La trattengono, le spiegano che non ci si può presentare così alle autorità, che bisogna affidarsi a un avvocato, inoltrare una richiesta ufficiale. Lei si agita, loro tacciono, si limitano a stringersi intorno a lei. Nel dolore senza risposta, decisamente c’è qualcosa che non torna.
Layla non ha tenuto per sé il sorriso di Youssef: ha fatto dipingere il suo volto in un murale di sei metri per sette sulla sua casa di Monastir. «Voglio che i governi e l’Europa si ricordino che è morto per colpa loro, a causa delle leggi ingiuste che non permettono la libera circolazione delle persone», denuncia. È la prima in Tunisia a reagire in questo modo all’oblio dei desaparecidos del Mediterraneo. «Vorrei che tutte le madri che hanno perso un figlio in mare seguissero il mio esempio», dice. Se succedesse davvero, intere città si riempirebbero all’improvviso di migliaia di facce di giovani, di donne, di bambini. Senza le frontiere sigillate nessuno di loro sarebbe morto, nessuno.
Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop