Il popolo del cielo

di claudia

Alla scoperta degli Zulu tra storie, leggende e finzioni. Sono il principale gruppo etnico del Sudafrica. Vantano un glorioso passato politico e militare. Sono tenacemente e orgogliosamente attaccati alla tradizione. Ma sanno stare al passo coi tempi, preferendo inventare la modernità piuttosto che subirla

di Alberto Salza

«Sei uno zulù». Quando ero ragazzino, la parola era un insulto. Sapeva di negritudine e selvaggeria, di ignoranza e ferocia. Derivava dalle cronache del colonialismo, che avevano dovuto ingoiare la sconfitta delle giubbe rosse britanniche in Sudafrica quando, nel 1879, ventimila guerrieri zulu fecero letteralmente a pezzi 1.800 soldati della regina Vittoria, a Isandhlwana. I politici di oggi direbbero: «Inaccettabile!». Domanda: se non accetti che gli Zulu ti sconfiggano, che fai? Denigri, parola che significa “annerire”.

Crebbi pertanto con una brutta opinione degli Zulu. Oggi la si pensa diversamente: lo stereotipo racchiude «orgoglio, fierezza per una storia gloriosa, attaccamento alla tradizione, eppure la capacità di stare al passo coi tempi» (copyright del direttore). Una cosa è vera: gli Zulu preferiscono inventare la modernità piuttosto che subirla passivamente.

In realtà gli Zulu hanno inventato sé stessi, autonominandosi “il popolo del cielo” e separandosi dagli Nguni. La maggior parte degli abitanti del Sudafrica sudorientale appartiene al gruppo nguni e parla forme di bantu (una famiglia linguistica, non una “tribù”). Gli Nguni, agricoltori con la fissazione culturale per la pastorizia, arrivarono da queste parti attorno al XVII secolo, più o meno in contemporanea con i coloni europei: nei deserti finirono gli ottentotti e i boscimani (Khoi-San). La scissione zulu avvenne per una qualche colpa: in Africa, soprattutto tra i pastori, si può colpire lo straniero, mai il confratello. Nella nebulosa mitologia degli Zulu si accenna ad affari di sesso, roba grave per chi basa il sistema di vita sulla genealogia. A quel punto, invece dell’estraneità alla colpa, si può dichiarare la non appartenenza al gruppo. Se sei Zulu, non sei tenuto a rispettare la legge nguni.

Dalla rivoluzione di tutto il sistema sociale, gli Zulu ottennero potere militare, influenza politica e incremento demografico, cose che funzionano tuttora nella moderna “democrazia tribale” del Sudafrica. Come esempio di trasformismo positivo, esaminiamo la “causa della colpa”, le donne. L’influenza politica delle donne, tipica di altri Nguni, come gli Xhosa o i regni swazi, venne distolta verso il mantenimento della “tradizione”. Per assurdo, il meccanismo fu l’abolizione di ogni rito di passaggio, circoncisione compresa, per i maschi zulu, onde renderli alieni ai nemici e solidali tra compagni d’arme. Mentre non c’è stato alcun tentativo di reintrodurre la circoncisione maschile, neppure durante i movimenti di “ricostruzione culturale” dovuti all’apartheid, alle ragazze è rimasta la leggenda di Nomkhubulwana, principessa del cielo e patrona di ogni fertilità. Dalle numerose cerimonie femminili, tra pubertà ed età adulta, la donna zulu ricava il ruolo di custode di generazione e cultura: in sostanza le tocca garantire le pratiche di evitazione hlonipa, atte a render certa l’approvazione degli antenati. Dei mariti, si badi bene.

Nella regione del KwaZulu-Natal vivono circa 10 milioni di Zulu. Parlano l’isiZulu, lingua bantu appartenente al sottogruppo nguni. Il loro nome deriva dalla parola amazulu, che in isiZulu significa “gente del cielo” (Foto di RAJESH JANTILAL / AFP)

La cerimonia delle vergini

Che gli Zulu abbiano la tendenza alla politica e all’antropologia creativa, lo vediamo nella cerimonia umhlanga, tripudio per ogni fotografo e turista occidentali per via che le fanciulle, rigorosamente accertate come vergini da un’ispezione (oggi controversa), dovrebbero indossare solamente una cinta decorata con perline. La cerimonia ricorda la nascita del creatore tra i giunchi, per cui le giovinette tengono una canna in mano con cui omaggeranno il re. Bene, la cerimonia non è una tradizione degli Zulu, ma dei vicini Swazi. A scopi di revanscismo (“identità tribale” per la retorica dell’Inkatha Freedom Party), i politici zulu inventarono rituali a raffica, onde assicurare la lealtà dei tradizionalisti nella loro “circoscrizione etnica” del Natal.

L’umhlanga venne introdotta nel 1984 dal re Goodwill Zwelithini, morto la scorsa primavera, presso la sua residenza di Enkoyeni: decine di ragazze seminude ballano per 8 giorni a seno all’aria canti zulu davanti al re per invogliarlo a prendere una moglie (Zwelithini ne aveva sei, e 28 figlie e figli). Al momento della mia visita, poco tempo dopo, la cerimonia era già divenuta un punto fermo nell’immaginario collettivo. L’invenzione della tradizione è pratica comune nel mondo, ma la tradizione stessa diventa un killer al mutare delle condizioni socio-ecologiche. All’apparire dell’Hiv-aids, in Natal come in tutto il Sudafrica la tradizione riguardante le vergini venne distorta, e si diffuse l’idea criminale che l’accoppiamento con una vergine proteggesse dal contagio. Alla fine si arrivò alle infanti.

Storicamente, gli Zulu sono i guerrafondai dell’area. Da reietti si trasformarono in aggressori, scatenando guerre contro tutti, britannici compresi. Uno degli inventori dell’arte militare zulu – tra reggimenti maschili, lance corte (assegai) per il combattimento ravvicinato e strategie di accerchiamento a “corna di toro” – fu il notorio Shaka. Nome e origine non son proprie di un eroe: alla fine dell’Ottocento, il capo Senzangakhona mise incinta una fanciulla di nome Nandi, che fu scacciata con la scusa di aver sviluppato un parassita intestinale, il nocivo i-shaka. Sulla storia di Shaka, il temutissimo fondatore dell’Impero Zulu, nel 1986 venne girato un serial di grande successo. Da allora, ogni Zulu si sentì orgoglioso della propria identità.

Il ruolo del re degli Zulu è simbolico, ma il sovrano gode ancora di molta popolarità tra i sudditi e di enormi ricchezze: amministra quasi 3 milioni di ettari di terre, vive con una rendita annuale di circa 5 milioni di euro (Foto di RAJESH JANTILAL / AFP)

Fedeli alla monarchia

Ancora oggi, malgrado la globalizzazione, gli Zulu restano tenacemente e orgogliosamente attaccati alla tradizione. Lo scorso maggio sul trono del regno è salito Misizulu, 46 anni, figlio maggiore del defunto re Goodwill Zwelithini che aveva guidato la monarchia dal 1971. La sua nomina non è stata bene accolta da tutti i componenti della famiglia. Secondo quanto hanno riportano i media locali, l’avvicendamento ha causato forti tensioni in seno alla famiglia reale. Per gli Zulu, il più grande gruppo etnico del Sudafrica, la monarchia non ha potere politico formale e il ruolo del monarca è in gran parte cerimoniale. Tuttavia il re degli Zulu rimane estremamente influente: amministra quasi 3 milioni di ettari di terre e vanta un budget annuale finanziato dai contribuenti di oltre 4,9 milioni di dollari. Viene considerato un simbolo importante della storia, della cultura, del patrimonio nazionale del Sudafrica.

Re Misizulu è diretto discendente di Cetshwayo, mitico monarca che nella guerra anglo-zulu fu sconfitto e catturato del 1879. Ad annunciare la sua proclamazione è stato Mangosuhu Buthelezi, suo zio nonché capo del partito che aveva un piede nel governo razzista e successivamente un piede nel governo di Nelson Mandela. È presto per sapere se sarà un sovrano progressista o conservatore, se vorrà dialogare con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa o se lo sfiderà. Re Zwelithini, il padre, aveva avuto rapporti altalenanti, a tratti tempestosi, con l’African National Congress, ex movimento di liberazione dalla segregazione e partito al potere dal 1994, e si era contraddistinto per dichiarazioni xenofobe contro gli immigrati (definiti «pulci» e «formiche») e omofobiche («inaccettabili»).

La birra del benvenuto

Anni fa mi aggiravo in autostop fra Transkei e Natal, tra dolci colline e formidabili erosioni. Sapendo che il set del film sul valoroso condottiero Shaka era divenuto una sorta di sacrario e un insediamento zulu “più vero del vero”, andai a visitarlo a Eshowe, sulla Route 66. Lasciai lo zaino dentro una replica quasi perfetta di uno indlu, la capanna ad alveare tipica degli Zulu. Prima di entrare nel perimetro dell’abitazione, che altro non è che il recinto del bestiame, bisognava chiedere permesso. Ripetei la formula «ng!o, ng!o», schioccando la lingua con il click, la sonorità ereditata dai Khoi-San. All’ingresso del recinto arrivò un omone vestito di pelli, con ciuffi di criniera di leone alle ginocchia e uno scudo ovale in pelle dipinta. Con la lancia mi fece cenno verso il lato destro dell’ingresso.

Dentro l’apposita capannuccia c’era un vaso di birra di miglio fermentato: un miscuglio grigiastro dall’odore sospetto. «Non si entra in una casa zulu senza bere la birra», mi venne spiegato. Tutti i visitatori facevano finta di bere, evitando di appoggiare le labbra alla ciotola comunitaria. Dai miei studi sapevo che la birra deve essere pronta al mattino e terminata alla fine del giorno, pena maledizioni. L’omone guardò la ciotola e il vaso della birra, ancora quasi colmi. Vista l’ora tarda, fiero dell’identità zulu e custode delle tradizioni, afferrò il vaso e trangugiò la birra rimasta. «Va avanti così ogni giorno – mi disse –. Diventerò un ciccione alcolizzato». Gli diedi una pacca sulla spalla.

Il sovrano non ha potere politico formale e il ruolo del monarca è in gran parte cerimoniale. Ma la monarchia zulu rimane estremamente influente e ha un budget annuale finanziato dai contribuenti di oltre 4,9 milioni di dollari

Etnoshow sul set

Evitata una potenziale maledizione, se ne presentò un’altra: affrontai cautamente lo spiazzo per gli animali, tra polvere e antiche deiezioni bovine. Improvvisamente venni attaccato da due giovinastri armati di mazze. Nella confusione che ne derivò, mi accorsi che le mazze, bontà degli Zulu, erano imbottite. Nella “vera” tradizione (un ossimoro), niente gommapiuma: i legnotti servono agli Zulu per tarare le forze di ospiti e ospitanti. Trovai rifugio dietro una capannuccia laterale. Dentro c’era un’isangoma, la combinazione locale di stregona, sciamana e curatrice. Era giovane, con la faccia dipinta di caolino bianco (in gran parte dell’Africa nera, il colore della morte). Mi fece entrare nella capanna. Accese un fuoco di erbe aromatiche. Il fumo invase la capanna. Aveva una coda di gnu che usava come scacciamosche e per sfiorarmi le gambe. Borbottava. Aveva occhi straordinari e, come mi successe sull’Himalaya, in Assam, o nel Messico degli Huichol, sentii il disperato desiderio di vedere ciò che aveva visto dietro me, ciò che continuava a vedere e mai vedrò.

Quella sera mi toccò assistere alle danze zulu: avevo pagato il tutto compreso. Fu bellissimo: i clown dell’ethnoshow (c’era anche il ciccione) si trasformarono in arabeschi volanti di muscoli e sudore, di grazia e forza, fiamme di fiaccole e peli di leone.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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