Ci sono uomini e donne che in Africa lottano in difesa della società civile, eroi spesso sconosciuti. Il Premio Raffaele Masto, promosso dalla Fondazione Amani e organizzato dal Comitato “Amici di Raffa” in collaborazione con la nostra rivista, vuole favorire l’attivismo civico nel continente. Un’occasione per far conoscere persone e realtà che altrimenti rimarrebbero nell’oblio di un mondo occidentale poco attento.
di Angelo Ravasi
La società civile africana può essere la chiave di volta per uno sviluppo equo? Possibile. Ma anche no. Troppo spesso esponenti di quella che in senso largo chiamiamo società civile – meglio sarebbe dire dissenso organizzato oppure uomini e donne che si impegnano, spesso sconosciuti e anonimi, per rendere la vita di centinaia di persone più dignitosa – vengono schiacciati da regimi che non hanno a cuore il loro popolo ma il mantenimento del potere a tutti i costi. Gli esempi sono molteplici. In molti paesi la vita ha un valore relativo, per lo meno una larga parte di popolazione fatica ad arrivare a sera e avere un impegno civile è impossibile, per coloro, invece, che vogliono battersi per una società migliore, se possibile, la vita è ancora più difficile, certamente rischiosa.
Sono in molti quelli finiti nelle patrie galere perché hanno manifestato le proprie idee e chiesto giustizia non solo per sé ma per tutti coloro che gli stanno intorno. Costoro mettono in atto un principio, una filosofia, che buona parte dell’Africa ha dimenticato, certamente coloro che la governano. Si tratta della filosofia Ubuntu, sinteticamente possiamo riassumerla così: “In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri”. Questa frase non è stata pronunciata da un africano qualunque, ma da Nelson Mandela, l’uomo che ha dato al Sudafrica una nuova speranza.
Eroi moderni
Ve ne sono molti altri di Mandela in Africa, sconosciuti, persone qualsiasi che, proprio attraverso questa filosofia, hanno trovato lo slancio per un impegno civile. In molti sono diventati eroi. Come dimenticare Alaa Salam, una donna sudanese diventata simbolo delle proteste contro il presidente Omar al-Bashir. La popolazione l’ha soprannominata Kandaka, che significa “regina nubiana”. È stata immortalata in un video mentre intona canti tradizionali che invocano il cambiamento nel suo paese. Un fatto clamoroso che in Sudan una donna sia diventata il simbolo delle proteste. Questa donna e la sua protesta sono diventate il modo più efficace di far conoscere al mondo la rivolta dei sudanesi contro il regime al potere dal 1989. Una vera rivoluzione, non solo dei vertici, ma di tutto il paradigma che ha sempre governato il Sudan.
Ma, poi, vi sono persone che lavorano nell’ombra. Come Robert Njdangala, attivista congolese di pro-democrazia di Filimbi, un movimento a favore della democrazia e della società civile, perché nella Repubblica democratica del Congo si possano svolgere elezioni credibili e libere. Non ha avuto il successo di Kandaka, ma non smette di battersi. Come Ousmane Djebare Djenepo, settantaseienne a capo della Federazione dei pescatori del Delta del Niger che continua la sua lotta perché il fiume torni ad essere la fonte di vita e lavoro per i molti pescatori che lui rappresenta.
E poi ci sono anche coloro che si spingono fino a candidarsi alle elezioni come è capitato a Boubacar Ould Messaoud – è stato candidato alle presidenziali in Mauritania – leader di Sos Esclaves, che non ha mai smesso di denunciare episodi – non tanto isolati – di schiavitù nel suo paese, nonostante una legge la vieti, ma la tradizione e i privilegi sono duri a morire. Oppure il rapper ugandese, Bobi Wine, diventato simbolo della rivolta giovanile contro l’eterno presidente Yoweri Museveni, e capo dell’opposizione. Poi ci sono personaggi molto noti, come il premio Nobel per la Pace, Denis Mukwege, medico dell’Rdc che “ripara le donne”.
Il premio Raffaele Masto
In Africa sono molti i Mandela, i Mukwege e le Kandaka che applicano la filosofia dell’Ubuntu, ma pochi sono ai vertici degli stati o diventano eroi moderni senza volerlo, che non mettono a repentaglio la loro vita perché a essa tengono talmente tanto da amarla più di ogni altra cosa ma, a volte, ciò che fanno li rende vulnerabili loro malgrado perché il potere, il sistema, pensa che la loro eliminazione li renda intoccabili. In molti rimangono sconosciuti, ma sono diventati simboli nel loro villaggio o città, ma non sono conosciuti fuori da quei confini. Questo è il senso del Premio Raffaele Masto, a favore dell’attivismo civico in Africa, che vuole dare visibilità e sostegno a esponenti della società civile africana. Il Premio è promosso dalla Fondazione Amani e organizzato dal Comitato “Amici di Raffa” in collaborazione con Rivista Africa. Un premio, dunque, per far conoscere persone e realtà che altrimenti rimarrebbero nell’oblio di un mondo occidentale poco attento, anzi, particolarmente disattento alla vivacità che spesso esprime l’Africa e più attento – in modo strumentale – a quei disgraziati che cercano di attraversare il Mediterraneo rincorrendo un sogno e una vita migliore. Il Premio Raffaele Masto ha proprio questa funzione, svelare e togliere dall’oblio le diverse “società civili” che animano le strade polverose di un continente dimenticato, che fanno parte, come spesso usiamo dire, del “continente vero”.
Ci sono in Africa, giovani Mandela, Mukwege e Kandaka che nello smarrimento delle tradizioni cercano, a volte invano, nuove strade dove ritrovare un senso alle loro esistenze. Di sicuro gran parte delle élite africane hanno contribuito al disorientamento di masse di giovani che faticano a far sentire la loro voce. Alcuni diventano dei Mandela in piccolo, embrione di un mondo nuovo. Proprio a costoro vuole dare voce il Premio Raffaele Masto.
(Angelo Ravasi)