di Michela Fantozzi – NuoveRadici.world
Tre testimonianze di cittadinanza mancata. Storie di ragazze italiane che con il loro esempio spiegano perché la riforma della legge sulla cittadinanza è più urgente che mai.
“La riforma serve perché non sono i soldi a fare un italiano“
Eva Aihanuwa Ugiagbe ha 25 anni, è di Verona e studia lingue a Venezia. La sua citazione preferita è “Adorava gli aeroporti: le piacevano l’odore, il rumore, l’atmosfera, la gente che correva qua e là con le valigie, felice di partire” di Cecilia Ahern, perché Eva gli aeroporti ce li ha nel cuore e il suo sogno è diventare una hostess. «Io sono riuscita a prendere la cittadinanza abbastanza facilmente a diciotto anni» racconta.
«Prima di compierli avevo preparato tutta la documentazione necessaria. Ero molto in ansia, avevo paura che me l’avrebbero negata anche se sono nata e cresciuta qui e in Nigeria c’ero stata solo per un paio di settimane, in vacanza. Per poter mettere insieme i documenti ho dovuto saltare giorni di scuola ed ero all’ultimo anno di liceo, con tutte le preoccupazioni della maturità. Ma sono stata fortunata, un mese dopo il mio diciottesimo compleanno mi hanno concesso la cittadinanza. Non posso dire altrettanto di mia madre». La madre di Eva, Sandra, è mediatrice cultura a Verona. Ha lavorato molto come operatrice di aiuto alle vittime di tratta ed è molto conosciuta e apprezzata in città per il suo impegno sociale. Nonostante i suoi pregi e nonostante sia in Italia da più di trent’anni, la sua richiesta di cittadinanza è stata rifiutata più volte.
«A mia madre non hanno concesso la cittadinanza per motivi di reddito. Lei è stata una mamma single, mi ha cresciuta da sola e ha sempre lavorato da quando si è separata da mio padre. Ha fatto la donna delle pulizie, poi è diventata mediatrice culturale. Ha lavorato come traduttrice per il progetto Nave, la rete che unifica le associazioni antitratta, e per i ragazzi che chiedono asilo politico al tribunale regionale. Ha avviato anche collaborazioni con l’Università, ma tutto questo non è servito a nulla».
La madre di Eva possiede ancora il permesso di soggiorno da lungo soggiornante e ha difficoltà a trovare un lavoro in più per aumentare il reddito, perché ormai anziana e con difficoltà motorie. «Conosco un’amica che ha ottenuto la cittadinanza per meriti sportivi. Questa è una cosa che ho sempre odiato. La cittadinanza dovrebbe essere un diritto, mentre con il merito sportivo è come se la si desse per un tornaconto, per un vantaggio dello Stato. E tutti gli altri che sono italiani ma non praticano sport a livello agonistico? Che aspettino pure anni per avere il loro diritto».
«Come nel caso di mia mamma, che è sempre stata ridotta a quello che può fare per l’Italia ma in termini economici, perché di cose per la città in cui vive ne ha fatte tante, ed è amata sia dalla comunità nigeriana di Verona, sia dai veronesi autoctoni. Dovrebbe essere considerata come persona, ha lavorato qui per trent’anni anche se non si è mai arricchita. Il diritto non può limitarsi a guardare il guadagno, non è umano, è umiliante e degradante».
“La cittadinanza è del cittadino attivo nella sua comunità”
Deepika Salhan ha 22 anni, anche lei è di Verona e studia Scienze politiche internazionali a Forlì. Parla con grande sicurezza per essere così giovane, forse perché fin da piccola si è cimentata nel ruolo di rappresentante scolastica e non conosce la paura di parlare. «Sono nata in India nel 1999 e mi sono trasferita in Italia quando avevo nove anni. Io non sono ancora cittadina italiana, ho avviato la mia pratica quando ho compiuto diciotto anni perché -non essendo nata qui- rientro nel criterio dei dieci anni di residenza. Purtroppo la mia richiesta risulta ancora alla prima fase dell’istruttoria. Tutte le complicazioni relative alla mancanza di cittadinanza, che non avvertivo quando ero piccola, stanno emergendo sempre di più . Soprattutto per tutto quanto riguardi le opportunità di studio e professionali». Deepika è molto ambiziosa e determinata, vorrebbe lavorare nell’ambito della diplomazia e quest’anno era riuscita ad ottenere un Erasmus in Svezia.
«Ho dovuto rinunciare alla partenza per l’Erasmus. In questo momento mi sarei dovuta trovare in Svezia, ma non avendo la cittadinanza ho dovuto richiedere il visto svedese e le tempistiche burocratiche sono state troppo lunghe. Io non ce l’ho fatta, ma i miei coetanei italiani sono già all’estero a vivere un’esperienza che a me è stata negata».
L’Erasmus non è la sola opportunità di studio e lavoro a cui Deepi ha dovuto rinunciare. «Da quando sono piccola sono attiva all’interno del mondo della rappresentanza. Ho fatto la rappresentante degli studenti alle superiori e anche ora all’università. Sono attivista per i diritti sociali e civili, partecipo alla campagna per la riforma della cittadinanza. Ci tenevo a fare un tirocinio nell’ambito della diplomazia e invece non posso neanche candidarmi presso le rappresentanze diplomatiche in Italia perché il primo requisito è quello della cittadinanza italiana. Questo è ciò che più mi pesa, le opportunità che mi vengono tolte, soprattutto vedendo i miei coetanei che sono al mio stesso livello ma che a differenza mia riescono a fare di più nel loro percorso di studi». Anche senza la cittadinanza, Deepika si riconosce già come cittadinanza italiana.
«Essere cittadino vuol dire essere attivi nel proprio territorio. Quella forma di cittadinanza attiva e partecipava che io in tutte le sue forme realizzo ogni giorno, da rappresentante degli studenti e come attivista. Mi manca il riconoscimento formale e la sua mancanza è qualcosa che mi trascina giù, che toglie slancio nella quotidianità».
“Riforma necessaria per non costringere i giovani a rinunciare ai propri sogni”
Kaaj Tshikalandand è toscana, di origini congolesi, ha ventinove anni, è mediatrice culturale e ricercatrice di antropologia. «Sono nata e cresciuta in Italia, ma non ho ancora la cittadinanza italiana. Io sono cresciuta in una piccola città fiorentina, Settimello, dove non ho subito nessun tipo di razzismo o di stigmatizzazione per il fatto di essere una piccola bambina nera» racconta. «Una volta alla recita natalizia dell’asilo ho fatto Gesù bambino. Erano gli anni 90 e prendere una bambina nera per quel ruolo, beh, che dire: i miei insegnanti sono stati precursori di diversità. Vivevo in una sorta di bolla di normalità, ma poi, crescendo le cose sono cambiate».
A Kaaj non è stata riconosciuta la cittadinanza perché quando era piccola ha passato un anno in Congo, violando il criterio di continuità di residenza. «I miei genitori pensavano che il criterio di continuità di residenza sul territorio si applicasse soltanto alla casistica del migrante e non a me, che ero nata in Italia. Mi hanno portata con loro in Congo, dove lavoravano con diverse organizzazioni umanitarie. Sono stata fuori dall’Italia per più di un anno e quindi sono stata privata del diritto di richiedere la cittadinanza italiana per nascita e sono rientrata nella casistica del migrante. Anche questa è un’aberrazione burocratica». Kaaj non ha vissuto discriminazione per il colore della sua pelle durante l’infanzia, ma quando ha cominciato a spostarsi per frequentare l’università la sua vita è cambiata.
«La gente ha cominciato a guardarmi in modo strano in autobus o quando ero fuori con gli amici. Hanno cominciato a farmi domande strane, a cui non avevo mai dovuto rispondere prima, come per esempio “come fai a parlare così bene l’italiano?”. La gente si sorprende perché mi riconosco come italiana. A un certo punto sono arrivata a chiedermi se non sia stato tutto una menzogna, se fossi legittimata a sentirmi italiana».
Insieme alla messa in discussione della sua identità Kaaj ha dovuto anche mettere un freno ai suoi sogni. «Io sarei voluta andare a lavorare a Parigi. Volevo iniziare con l’Erasmus e poi fare un master in antropologia culturale, ma ho dovuto mettere un freno a tutto questo», spiega. «Ho fatto le classiche serate di presentazione dell’Erasmus all’università, avevo le stelline negli occhi per l’entusiasmo di partire. Poi ho visto la documentazione richiesta e ho capito che non ce l’avrei mai fatta. Ho dovuto bloccarmi su tutto, non solo con l’Erasmus e quando me ne sono resa pienamente conto sono entrata in depressione. Ho avuto questi disturbi per due anni, aggravati da una situazione di incertezza e dalla continua messa in discussione della mia identità e della mia legittimità come italiana. Per il bene della mia salute mentale mi sono detta “Ok, Parigi non sarà per oggi e questa opportunità forse non è per te e l’ho lasciata andare”».