di Alberto Salza
Gli abitanti delle foreste equatoriali dell’Africa, celebri per la bassa statura, vivono in simbiosi con la natura, in un’altra dimensione. I Pigmei sono stati a lungo considerati selvaggi e primitivi destinati a soccombere. Ma hanno saputo resistere e reagire agli sconvolgimenti delle foreste in cui abitano. Il loro segreto? Abili strategie di adattamento e una straordinaria capacità di mimetizzarsi
Alla fine del secolo scorso, su incarico di un produttore milanese scrissi la sceneggiatura per un musical a tema africano. Lo spunto mi venne da un episodio narrato dall’antropologo Colin Turnbull a proposito della sua prima notte tra gli Mbuti della foresta pluviale dell’Ituri, in Congo. Si tratta di uno dei tanti gruppi di persone diversamente alte diffusi tra il Camerun e il Ruanda, popolazioni derivate da una frammentazione genetica e culturale in differenti rifugi-foresta, collettivamente note come “Pigmei”. La parola deriva dal greco “alto un cubito” (meno di un metro e mezzo, misura che i genetisti amanti della razza confermano) e rientra nel moderno body shaming. A me non importa e, credo, neppure ai Pigmei, i quali, tra crisi climatica forestale, epidemie di varia natura, inculturazione forzata, deprivazione territoriale e bande armate in guerra per il coltan, hanno altri problemi.
Fatto sta che l’antropologo venne ospitato in un accampamento mbuti. Gli fu assegnata una capannuccia di grandi foglie. Mentre stava per addormentarsi, tra un acquazzone tropicale e l’altro, gli venne proditoriamente infilata una fanciulla nella capanna. Le intenzioni erano chiare e serie: sesso e corruzione. L’antropologia, però, è scienza di origine vittoriana: si suppone che il ricercatore sul campo condivida ogni esperienza del gruppo umano oggetto dei suoi studi (prima suscitando ilarità e poi rompendo le scatole a tutti), tenendo però le pratiche sessuali da parte. Come vedete, la ricerca partecipata è una truffa, oltre che un ossimoro.
Pertanto Turnbull si trovò nei guai: accettare era antideontologico, rifiutare sarebbe stata un’offesa. Se la cavò mandando la ragazza, sotto la pioggia e per tutta la notte, a fare il mestiere di buona moglie pigmea: riparare la capanna, raccogliere vermi, riattizzare il focolare, preparare le radici per colazione, lavargli i calzini, cose del genere. La mattina, la ragazza si era dileguata. Per sempre.
L’idea del musical era di rintracciare quella donna dopo trent’anni. La immaginai nella periferia devastata di Kisangani, a chieder carità e una birra, vestita di stracci, mentre il disco Mzée Fula-Ngenge di Papa Wemba esaltava la rumba delle bafioti-fioti (termine kikongo derivato dal francese fillettes, “piccine piccine”), le bambine-strega dal sex appeal magico. E mentre tenta invano di ricordare il suono dolce dello hindewhu (lo zufolo cantante che accoglie il cacciatore al ritorno), o la polifonia unica al mondo della sua gente a contraltare con i suoni della foresta, la domanda della donna è: «Perché quell’uomo bianco non mi ha voluto?».
Prospettive diverse
Non vi narrerò la fine: in ogni caso il musical non andò in scena. La domanda, però, è seria: siamo in grado di percepire la realtà dei Pigmei dal loro punto di vista? Per esempio, gli Mbuti dell’Ituri fanno capanne di foglie, smontabili, trasportabili e ricostruibili nei percorsi di caccia dentro la foresta pluviale. Il tutto sembra assai disordinato all’urbanista, ma in realtà il Pigmeo percepisce sé stesso come parte di un immenso villaggio esteso che comprende le capanne precarie, ma anche i territori di foresta da utilizzare muovendosi su percorsi precisi, ripetitivi, strutturati, formali. Anche in altezza.
La foresta dell’Ituri è fonte di vita per i Pigmei, un ristorante immenso con il dessert di miele a cinquanta metri dal suolo. È un territorio tridimensionale, omeostatico e coercitivo: così come la temperatura, anche la visione è condizionata. Uno Mbuti di nome Kenge venne portato fuori dalla foresta-madre. Per la prima volta l’orizzonte si aprì. Nella savana brucavano antilopi, bufali, elefanti. Kenge non mostrò alcuna emozione, eppure l’elefante è elemento centrale nella cultura alimentare e mitologica degli Mbuti. Si limitò a dire: «Che insetti sono quelli?». Nella foresta la visibilità è così limitata che non c’è controllo automatico per valutare la grandezza di un oggetto in funzione della distanza, dato che la prospettiva è al massimo a cinque metri, sempre. Senza un tronco di paragone, Kenge non coglieva le grandezze. Strizzando gli occhi, disse: «Elefanti, ma di che razza? Son troppo piccoli: non c’è niente da mangiare».
Se la foresta condiziona la sopravvivenza dei Pigmei autoctoni, le radure, abitate da agricoltori a partire da circa l’anno mille, fanno parte del villaggio allargato, in quanto nodi di interfaccia tra i Pigmei e “gli altri”.
Il potere del ferro
Ora, è opinione comune che i Pigmei siano servi, se non proprio schiavi, dei loro patrons di lingua bantu. Anche a livello storico non c’è alcuna prova scientifica di ciò: le due popolazioni sono complementari. I pigmei riforniscono gli agricoltori di carne e prodotti della foresta, oltre che di apprezzatissime mogli, il che la dice lunga sulla supposta “purezza” delle genti locali e la sorpresa della protagonista del musical. In cambio i Pigmei ricevono notizie dal mondo (non si sa mai potessero servire), integrazioni alimentari, abiti usati e, soprattutto, oggetti in ferro.
La tecnologia del ferro, in Africa, risale ad almeno settemila anni fa. Furono coltelli e zappe a permettere l’espansione bantu attraverso la foresta pluviale, in una forma di colonizzazione simile a quella latina, più per mezzo della tecnologia e di una lingua (bantu è termine linguistico, e vuol dire “uomini”) che non del dominio. Il ferro controlla la foresta: non la ferma, ma ne rallenta la crescita inesorabile. Le lame feriscono la Grande Madre, certo, ma, da queste parti, la tradizione ostinata può essere letale. Così, i Pigmei sono divenuti schizofrenici: quando vivacchiano presso i neri (una manica di poveracci, mangiatori forzati di tuberi) vengono afferrati dalla nostalgia e sognano di tornare nella giungla. Una volta esaurita la loro operazione nella foresta (caccia e raccolta di vegetali spontanei e miele, musica, cerimonie, matrimoni), vengono presi dalla “paura del coltello”. Il ferro fa male al loro ambiente-nutrice. Per evitare ritorsioni, è meglio tornare alle vie polverose del villaggio, ai campi di manioca, con indosso la t-shirt troppo grande e lacera, fermi, sotto la lamiera ondulata, rovente e rugginosa, a guardare dal basso in alto chi ti possa dare una moneta, l’indispensabile tabacco, o l’alcool di palma, o l’erba da fumare.
Così era la donna del musical, persa nella malinconia dell’uomo bianco. Chi la guarda vede una derelitta non sposata (un abominio, in Africa), una serva finita male, forse una prostituta, un rifiuto che, se si guarda ad altezza “normale”, non è visibile. Così come non furono visibili in Rwanda, durante il genocidio hutu-tutsi, i pigmei twa (nel proto-bantu, il radicale *-tuà significa cacciatore-raccoglitore, autoctono e pigmeo): fortuna o strategia pigmea?
Scomparire per resistere
Ho studiato sul campo il comportamento dei cacciatori-raccoglitori nel triangolo africano, dai Bassari del Senegal a ovest, agli Okiek del Kenya a est, fino ai San del Kalahari a sud, con i pigmei al centro. La loro apparenza è sempre la stessa: laceri, reietti, sottomessi, deprivati di lingua e cultura. Poi mi son reso conto che ero io a vederli così, e solo lungo le strade, nei villaggi, nelle cittadine ai margini della giungla, del deserto, della savana. Quanti di noi hanno raggiunto l’interno profondo della foresta per vedere come vivono i Pigmei nel loro ambiente, oggi? Non certo i pochi amministratori rimasti al loro posto; non gli inesistenti visitatori europei; men che meno gli antropologi, o i fotografi: nella giungla la luce fa schifo. E neppure i cosiddetti patrons, un tempo terrorizzati dal ritorno quotidiano delle forze della foresta nei campi (per tale motivo temono e disprezzano al contempo i Pigmei, gestori di tali potenze), mentre oggi sono costretti da bande assassine ad abbandonare le radure coltivate per correre tra gli alberi lacerandosi gli abiti fino alla nudità (vedi “Profondo Congo”, Africa, 1/2017). Dove sono i Pigmei in questo scenario?
Foto di Bruno Zanzottera
Forse, l’immagine che ci fornisce la donna vilipesa e spersa nel mercato, pure lui derelitto ai confini del mondo “civile”, è solo una rappresentazione da musical. Nel tempo, variando la lente prospettica, ho capito che la “condizione” dei Pigmei è parte di un’operazione di mimetismo tipica delle società di cacciatori-raccoglitori: si mantiene uno strato profondo della propria cultura (da recuperare in tempi di crisi come oggi) su cui si spalmano usanze e costumi estranei per garantire la sicurezza e il cheto vivere. Mistificazione, dissimulazione e depistaggio: per campare accanto ai grands nègres non devi puntare sull’amicizia e sulla fiducia, quanto piuttosto sulla complementarità e sulla dipendenza reciproca. Magari sull’invisibilità.
Come mi disse l’etnomusicologo Devin, iniziato vent’anni fa dai Pigmei Baka, in Camerun: «Forse per loro, nella modernità, non c’è futuro. Ma a vederli non lo diresti».
Questo articolo è uscito sul numero 6/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop