di Marco Aime
Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.
Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.
Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.
Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti. Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.