a cura di Andrea Spinelli Barrile
Il 7 aprile 1994 il Ruanda è sprofondato negli orrori del genocidio: in soli 100 giorni oltre un milione di vite fu spazzato via dalla violenza in quello che oggi è ricordato come uno degli orrori peggiori del Novecento, una campagna di morte brutale con la quale il mondo non ha mai fatto completamente i conti. E i cui effetti, nella regione dei Grandi Laghi, si vedono ancora oggi.
La violenza seguì la morte del presidente Juvenal Habyarimana, la sera precedente: il 6 aprile, il suo aereo si schiantò colpito da un missile mentre rientrava a Kigali dopo i colloqui di pace a Dar-es-Salaam, in Tanzania. Già quella notte, la radio Rtlm (la tristemente famosa Radio Mille Colline) trasmise un messaggio del colonnello Theoneste Bagosora che annunciava la morte di Habyarimana e invitava le persone a rimanere in casa, una mossa che era stata studiata a tavolino per intrappolare le vittime Tutsi all’inizio delle uccisioni. Al mattino dopo il genocidio ha iniziato a prendere piede: cittadini comuni, in particolare di etnia Tutsi ma non solo, furono massacrati in casa e i carnefici non furono soltanto le milizie Hutu dell’esercito e le milizie civili Interahamwe ma anche uomini e donne comuni che, inebetiti dalla propaganda e dal terrorismo dello Stato, arrivarono a massacrare amici, vicini di casa, persino mogli o mariti, ritenuti (spesso anche a torto) membri di un’etnia diversa. Di un’etnia da estirpare.
Per tre mesi l’esercito, le milizie Interahamwe e semplici cittadini hanno massacrato, con fucili, machete, mazze, con qualsiasi cosa, i Tutsi, chiamati “Inyenzi” (“scarafaggi” in lingua kinyarwanda), ma anche gli oppositori Hutu. La carneficina finì quando la ribellione tutsi dell’Rpf, guidata da Paul Kagame, conquistò Kigali il 4 luglio successivo, innescando un esodo di centinaia di migliaia di Hutu spaventati verso il vicino Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo). Dopo più di 30 anni continuano ad essere scoperte fosse comuni, in Ruanda, dove la violenza si basò sulla politica del “divide et impera” imposta dall’ex-colone belga dopo la prima guerra mondiale: i belgi furono infatti i primi a differenziare le etnie di agricoltori (Hutu) e pastori (Tutsi), dapprima nei documenti di riconoscimento e poi in politica.

Da 31 anni il Ruanda porta avanti un lavoro di riconciliazione, in particolare con la creazione nel 2002 dei tribunali comunitari, i “gacaca”, dove le vittime potevano ascoltare le “confessioni” dei carnefici. Le carte d’identità ruandesi non menzionano più l’etnia e la storia del genocidio viene insegnata in un programma di studio strettamente controllato dal governo: oggi, più del 70% dei 13 milioni di abitanti del Ruanda hanno 30 anni o meno: senza dimenticare il passato, intendono liberarsi dal peso di un genocidio che non hanno vissuto.
La giustizia ha avuto un ruolo importante nella riconciliazione, ma secondo Kigali centinaia di persone sospettate di aver partecipato al genocidio sono ancora in libertà, soprattutto nei paesi vicini, come la Repubblica democratica del Congo (Rdc) e l’Uganda. Un totale di 28 fuggitivi sono stati estradati da paesi stranieri, di cui sei dagli Stati Uniti, mentre la Francia non ne ha estradato nessuno ma ne ha condannati una mezza dozzina a pene molto severe. Parigi, che manteneva stretti rapporti con il regime hutu all’inizio del genocidio, è da tempo accusata di “complicità” da Kigali. Una commissione di storici istituita da Emmanuel Macron ha concluso nel 2021 che la Francia ha “responsabilità pesanti e schiaccianti”, escludendo però qualsiasi complicità.