A livello mediatico, la veloce riconquista talebana dell’Afghanistan, che è seguita alla rocambolesca ritirata statunitense da Kabul, ha incoraggiato molti leader militanti islamisti a dare maggiore lustro e slancio al jihadismo, con la speranza di ottenere una svolta sul loro campo di battaglia. In particolare, nel Sahel, l’annuncio della Francia di porre fine all’operazione Barkhane, pur non ritirandosi dalla regione, è stato visto da Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), uno dei maggiori gruppi della regione affiliato ad Al-Qaeda, come un trionfo paragonabile al successo dei talebani.
Alla luce di questa rimodulazione dell’impegno francese nell’area, è dunque aumentato il livello di preoccupazione circa il delinearsi di una situazione in qualche modo analoga a quanto accaduto in Afghanistan.
di Sara Senno e Davide Lauretta
In Africa Occidentale l’espansione del jihadismo ha fatto registrare numeri allarmanti. La regione, a causa di una combinazione di fattori tra cui una governance poco efficiente, istituzioni deboli e corrotte, povertà dilagante, oltre che divisioni etniche inasprite dalla violenza arbitraria delle forze di sicurezza locali sui civili, è resa sempre più suscettibile alla proliferazione della radicalizzazione.
Ad alimentare il caos regionale negli ultimi due anni hanno contribuito anche i violenti contrasti tra gli stessi jihadisti, che hanno segnato la fine della cosiddetta “eccezione saheliana”, quella peculiare reciproca tolleranza tra affiliati locali del sedicente Stato Islamico (ISIS) e Al-Qaeda, storici rivali in tutto il resto del mondo. A partire da luglio 2019, una combinazione di differenze ideologiche, nonché un diverso modo di interfacciarsi con la popolazione locale e una brama di espansione e controllo di zone strategiche e ricche di risorse della regione ha trasformato quella che era una pacifica coesistenza in una guerra tra gruppi armati di ideologia salafita-jihadista di diversa affiliazione, in particolare tra Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), facente capo a ISIS, e Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), fedele ad Al-Qaeda.
Francia e Unione Europea nel Sahel
Facendo eco a quanto avvenuto in Nord Africa nell’anno precedente, il colpo di stato del 2012 in Mali ha fatto precipitare la situazione politica in una condizione di sostanziale vuoto di potere, lasciando ai gruppi islamisti locali il controllo di vaste aree del territorio. Questi risvolti portarono la Francia ad avviare nel 2013 l’Operazione Serval, ribattezzata poi Barkhane l’anno seguente.
A differenza della prima, concentrata esclusivamente sul Mali, a seguito della diffusione del jihadismo in tutta la regione, Barkhane copriva un territorio più vasto, estendendo la presenza francese non solo al Mali, ma anche a Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad, i Paesi della G5 Sahel Joint Force (JF-G5S). Le operazioni, che dal 2017 contano più di 5000 unità sul campo, consistevano principalmente nella lotta contro le reti terroristiche e i movimenti transnazionali dei ribelli al fianco degli eserciti regolari locali della suddetta coalizione.
Negli anni, la strategia franco-africana si è rivelata inefficiente, tanto che si è registrato un aumento esponenziale degli attacchi contro militari e civili da parte di gruppi sia affiliati ISIS che al-Qaeda.
Secondo ACLED, nel 2020 il bilancio delle vittime civili in Mali, Burkina Faso e Niger ha raggiunto il suo apice, raggiungendo quasi i 2400 decessi. Il dato più sconcertante è che, nonostante nello stesso anno sia aumentata la violenza dei gruppi islamisti nell’area, i maggiori responsabili di tali perdite risultano essere gli eserciti regolari: un paradosso secondo il quale i civili sono costretti a guardarsi maggiormente dalle forze armate addestrate dalla Francia per la loro difesa, piuttosto che dal “nemico” estremista. Tali crimini, che i governi saheliani avevano dichiarato di essere intenzionati a perseguire, sono ad oggi rimasti impuniti, contribuendo ad aumentare il circolo della violenza e facilitando l’attività di reclutamento dei gruppi armati.
La rimodulazione dell’intervento francese in chiave europea: motivazioni ufficiali o strategia politica?
L’instabilità della regione, il cui epicentro è il Mali, si è anche recentemente manifestata con due colpi di stato militari condotti nell’arco di nove mesi (agosto 2020 – maggio 2021). Parallelamente, gli scarsi risultati, le perdite umane e gli alti costi finanziari richiesti hanno reso sempre più impopolare Barkhane in patria, incrementandone notevolmente anche i costi politici. A causa di un bilancio evidentemente negativo e considerate anche le imminenti elezioni presidenziali in Francia (2022), lo scorso luglio il presidente Macron ha annunciato la fine di Barkhane, con un drastico ritiro delle truppe dal teatro saheliano: metà delle unità francesi dispiegate verranno ritirate entro l’inizio del 2022 e la restante parte sarà reimpiegata nella Task Force Takuba – missione militare multilaterale a guida francese – abbattendo perciò i costi finanziari e politici nell’area, senza rinunciare a preservare gli interessi nazionali nella regione.
Attiva dal 2019, essa ha l’obiettivo di assistere, consigliare e accompagnare militarmente sul campo le forze maliane, in coordinamento con le altre forze del JF-G5S, per supportarle nella lotta al terrorismo jihadista nella regione fino a che queste non avranno acquisito totale autonomia operativa.
La chiusura dell’Operazione Barkhane e il passaggio alla Task Force Takuba testimonia una riduzione dell’impegno francese nel Sahel, decisione secondo molti paragonabile al ritiro statunitense dall’Afghanistan.
Afghanistan e Sahel a confronto
Le celebri immagini dell’elicottero statunitense in decollo dall’ambasciata di Kabul e dei capi talebani fieramente seduti alle scrivanie governative mentre imbracciano i loro fucili d’assalto hanno senza dubbio alimentato le speranze nel panorama jihadista globale.
Nel Sahel, i militanti islamisti hanno potuto riconoscere nella vittoria dei Talebani l’esempio concreto di come un movimento jihadista locale possa vincere con pazienza e determinazione le forze di una coalizione internazionale, seppur in una lotta impari. Essi ne hanno altresì tratto ispirazione per contrastare le forze straniere presenti nei loro territori, convinti che un giorno l’invasore occidentale rinuncerà a imporre il suo modello di governance.
A seguito della presa talebana di Kabul, il seppur parziale disimpegno francese dal Sahel ha instillato in molti la paura di un revival afghano anche in Africa Occidentale.
Come nel caso americano, infatti, anche la Francia, dopo ingenti investimenti per formare e assistere un esercito dalla discutibile tempra morale, non ha ottenuto i risultati sperati. Si teme, in particolare, un repentino crollo successivo al ritiro delle truppe di supporto.
E ancora, al pari di quelle statunitensi, i militari francesi si sono trovati di fronte a istituzioni e forze di sicurezza incapaci di assolvere alle proprie funzioni e regolate da meccanismi di corruzione. Entrambi gli interventi hanno poi portato all’affaticamento delle proprie truppe e a perdite umane che si sono tradotte in un crollo del supporto in patria. Inoltre, emerge una pari propensione a favorire un approccio di hard security senza provvedere alla costruzione di una cornice di sicurezza estesa a tutti i livelli (economico, sociale, istituzionale), individuando le cause alla radice del malcontento sociale, sfruttato dai gruppi terroristici per guadagnare legittimazione popolare.
L’atteggiamento delle due potenze nelle operazioni di state building è stato in entrambi i casi contraddittorio: sia Stati Uniti che Francia hanno dichiarato di voler esportare la democrazia ma, nei fatti, hanno collaborato rispettivamente con Paesi come Arabia Saudita e Ciad, che non ne sono di certo l’emblema. Pertanto, si corre il rischio che, agli occhi delle popolazioni locali, i valori che giustificano la presenza occidentale vengano degradati dagli occidentali stessi.
Di contro, tra i due casi in oggetto sussistono differenze sostanziali che non possono essere ignorate. In primis, la dimensione dell’intervento francese ha una portata molto minore del corrispettivo americano, tanto per l’ammontare delle perdite quanto per la durata delle operazioni, iniziate soltanto nel 2013. Va anche considerato che la Francia non ha predisposto un totale rimpatrio delle truppe dal teatro saheliano, ma ha decretato la fine dell’operazione Barkhane, reimpiegando circa la metà delle sue unità all’interno di una task force militare multinazionale.
Per giunta, mentre la missione USA era circoscritta al solo territorio afghano, quella francese si estende a cinque differenti Paesi. Questo definisce senza dubbio un teatro molto più eterogeneo e articolato per quanto riguarda le relazioni con alleati e avversari.
Un’ultima riflessione si deve alla disponibilità delle due forze al dialogo: mentre con gli accordi di Doha gli americani si sono dimostrati disposti al dialogo con i talebani, la Francia ha chiarito con fermezza la sua intransigenza nel trovare un compromesso con gli estremisti.
Trasversalità dei gruppi jihadisti nei due contesti
Nell’analizzare la matrice ideologica che muove gli islamisti nei due contesti, va sottolineato in primis il loro comune legame con Al-Qaeda. In Africa Occidentale, infatti, l’insurrezione jihadista è in gran parte condotta da gruppi legati alla filiale qaedista della regione, Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), organizzazione storicamente legata all’Afghanistan.
Inoltre, al pari di quanto fatto dai talebani, anche gli estremisti del Sahel sembrano disposti ad attendere il ritiro delle potenze straniere, convinti dunque che il tempo sia dalla loro parte.
Se è vero però che i gruppi sono accomunati dalla stessa matrice ideologica, essi presentano forti differenze in termini di dimensioni, natura e obiettivi.
In particolare, i talebani sono un movimento nazionalista fondamentalmente disinteressato all’esportazione del proprio modello di governance e già alla loro seconda esperienza di governo, mentre i jihadisti saheliani, per i quali la questione della nazionalità risulta secondaria, operano in un contesto transnazionale caratterizzato da una profonda ondata rivoluzionaria in cui tutto è in divenire. Inoltre, essi non hanno mai avuto esperienze di governo e tantomeno dispongono di una base politica. Per di più, i primi costituiscono un fronte unico al comando, a differenza dei secondi, che sono frammentati e senza grosse prospettive di potersi alleare nel breve termine, soprattutto se si considerano le lotte intestine che dal 2019 li separano. Quest’ultimo elemento evidenzia difatti una situazione maggiormente destabilizzante nel Sahel rispetto al contesto afghano.
Alla luce di quanto osservato, sembra che non vi siano argomenti sufficienti a sostegno della tesi circa il parallelismo tra le realtà afghana e quella saheliana; tuttavia, non si può negare che quanto accaduto in Afghanistan inciderà in qualche modo sulle dinamiche dell’Africa Occidentale. Sia la diversa configurazione dei due teatri che le sostanziali differenze negli investimenti e nelle scelte strategiche di Stati Uniti e Francia denotano due situazioni sovrapponibili esclusivamente con riferimento alla contrapposizione tra tentativi di democratizzazione occidentali e lotte per la causa jihadista locali.
Anche per quanto riguarda i gruppi islamisti coinvolti, nonostante una comune matrice qaedista, non si può dire che esistano tra loro concrete analogie. Tuttavia, non va sottovalutata una certa influenza che le dinamiche afghane potrebbero avere sugli sviluppi futuri nel Sahel.
Ad esempio, qualora dovesse verificarsi un riconoscimento del nuovo governo talebano da parte di alcuni Paesi occidentali, questo senza dubbio avvalorerà l’idea che l’alternativa islamista è possibile, accrescendo l’umore e la motivazione delle milizie.
Ad ogni modo, per scongiurare il pericolo di un’involuzione violenta nell’area, bisognerebbe riflettere sugli errori commessi dagli Stati Uniti in Afghanistan, cercando di evitarli.
In particolare, andrebbero ripensate le modalità di intervento che, come accaduto in Afghanistan, si sono basate finora sul ricorso allo strumento militare. Occorrerebbe altresì affiancare all’impegno sul campo, un più ampio progetto di rinnovamento politico, al fine di colmare le attuali lacune nella governance e nella fornitura di servizi che caratterizzano le istituzioni africane.
Infine, risulta prioritario prestare una maggiore attenzione alla tutela della popolazione civile così da fermare le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle diverse milizie governative, le quali hanno sino ad ora incoraggiato l’adesione alla narrativa estremista.
(Sara Senno e Davide Lauretta – Amistades)
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