Tra le prime a notarla (e a interpretarla) c’è stata Roxanne D. Costa che, sulla sua pagina Facebook, ha pubblicato un lungo post che iniziava così: « Io nel 2019 non avrei dovuto vedere questa foto nel mio Paese. Beppe Sala qui rappresentante di quella Sinistra più razzista della destra a cui fa opposizione non avrebbe dovuto permettersi di politicizzare il colore della pelle di una bambina. Eppure questa è l’Italia in cui viviamo. Questo è il suo messaggio. Milano città aperta. A patto che i neri restino ai miei piedi. “Tollerante ma attenta alle regole”. Hai tutti i diritti che vuoi a patto che fai quello che dico io».
Questa foto è la copertina di Style Mag, il maschile allegato del Corriere della Sera diretto da Alessandro Calascibetta.
Vi compare il sindaco di Milano seduto su una poltroncina. Dietro di lui un bambino sorridente, ai piedi una bambina con i capelli mossi e la pelle ambrata, di probabili ascendenze africane, sorridente anche lei. Sullo sfondo il Duomo.
L’mmagine è stata ritenuta offensiva anche dalla counsellor Cristina Sebastiani, che al sindaco indirizza una lettera aperta, firmandosi «la mamma di un bambino nero».
«Caro Sindaco Sala, questa fotografia è stereotipata e offensiva e dà un’immagine distorta della nostra città.
Sembra proprio che quando deve avere a che fare con le persone nere, lei non riesca ad azzeccarne una.
1) Le bambine e i bambini neri non sono al mondo per stare ai suoi piedi, né per dimostrare la sua apertura mentale; non sono tutti immigrati da salvare né per forza portatori di una cultura esotica e difficile da digerire; e se anche non fossero italiani il loro posto sarebbe comunque accanto a lei e alla città di Milano, senza discussioni né distinzioni.
2) Le femmine hanno smesso da tempo di sedere più in basso dei maschi.
Caro Sindaco, è proprio perché apprezzo il suo lavoro che vorrei dirle con affetto di dotarsi di consulenti migliori e di fare uno sforzo in più sulle questioni di genere e di colore, di provenienza e di cittadinanza, perché con il cuore e la testa per ora non ci siamo».
La lettera aperta gira sui social e riceve molte adesioni. Per esempio, quella della scrittrice Igiaba Scego, studiosa del colonialismo e della sua heritage meno ovvia, che nota un’affinità tra la foto di Style Mag e certa iconografia coloniale. A dimostrazione di ciò, pubblica l’immagine che riportiamo qui, accompagnandola con una chiosa: «Ecco una delle tante foto coloniali di una bambina colonizzata ai piedi di un uomo bianco colonizzatore. È per questo immaginario che la foto del Sindaco Sala ci ha fatto saltare su dalla sedia. Per questo Cristina Sebastiani ha scritto quelle parole importanti che spero a Milano ascoltino. Perché sono parole nette, ma pacate. Parole che sanno e vogliono non puntare il dito in polemica, ma aiutare a costruire un linguaggio».
A Milano (e non solo) molti altri non hanno trovato però l’immagine offensiva. Si tratta di un fronte, in fatto di età, genere di appartenenza, colore della pelle, ascendenze, cittadinanze e curriculum antirazzisti, eterogeneo almeno quanto l’altro. Chi scrive, per esempio, si riconosce nel gruppo dei non offesi. La foto – mi limito a considerare quella, lascio da parte precedenti dichiarazioni di Sala o il modo in cui sta amministrando la città – al massimo, mi sembra bruttarella sul piano compositivo, troppo costruita e ammiccante. Non ci ho visto dentro discriminazioni di genere o di razza, ma un sindaco che vuole mostrarsi alla mano e gioviale. Così alla mano e gioviale che i bambini non avrebbero timore di giocare ai suoi piedi o ridere alle sue spalle. Non è dato sapere, tra l’altro, chi siano questi bambini. Potrebbero essere suoi nipoti, figli di amici o baby modelli passati per un casting. Non conosciamo la loro cittadinanza o la loro storia. Di certo però non ci sono persone nere nella foto, a meno di non volere considerare nero tutto ciò che non è rosa chiaro. Di certo non ci sono figure femminili sottomesse, a meno di non volere considerare sottomissione la prima fila di una posa fotografica o il modo in cui i bambini, giocando, strisciano e si abbarbicano ai piedi degli adulti.
Tra la cover di Style Mag e la foto postata da Igiaba Scego c’è a mio avviso una distanza siderale, tangibile nelle intenzioni e nei risultati. Una vuol raccontare la riduzione della distanza tra il primo cittadino di una capitale europea e i suoi cittadini più piccoli; l’altra mette in scena ed esaspera proprio il dislivello sociale e il privilegio coloniale in Africa. Una è visibilmente costruita; l’altra con ogni probabilità riprende una situazione reale. Una blandisce l’infanzia; l’altra la ignora.
La considerazione sulla necessità di trovare linguaggi nuovi e termini appropriati per parlare dei tempi che stiamo attraversando, o che più probabilmente ci attraversano, però mi trova d’accordo. Ho solo qualche dubbio sul fatto che questa ricerca possa cominciare con un j’accuse mediatico e, per forza di cose, venato di politica e nervosismo elettorale, con un processo alle intenzioni del sindaco (a proposito: come mai non ci si è rivolti al direttore di Style, ossia al responsabile di quel che pubblica il giornale? E i genitori dei bambini: sono stati interpellati per sapere cosa ne pensassero loro?). Come sta evidenziando anche in questo caso il dibattito/polemica sui social, mancano parole adeguate per parlare di quello di cui si sta parlando, ossia dell’Italia al tempo della mixité.
Le idee sono confuse già a partire dal colore della pelle delle persone. La bambina nella foto è nera (come suggerisce Sebastiani), mixed (come hanno sostenuto vari commentatori), afroitaliana o cosa? Affermare che è semplicemente una bambina risolve o rimuove la questione? L’enfasi posta sul colore della pelle discende obiettivamente dalla foto o è frutto delle interpretazioni? E che dire del termine “seconde generazioni” che si usa sovente per indicare i figli di persone immigrate in Italia? O dell’aggettivo “tollerante” che compare sulla copertina della discordia a esplicitare il concetto di Milano Città aperta? Che dire di tante altre parole ed espressioni ricorrenti, a partire da quel privilegio bianco asportato dal dibattito americano e troppo spesso innestato nel nostro senza contesutalizzazioni, distinguo, prospettiva storica?
Di questi lemmi mancanti, di queste realtà che incontriamo ma non possiamo nominare, degli aggettivi scivolosi che si comportano come falsi amici e degli innesti frettolosi, dobbiamo sì cominciare a occuparci. Il clamore suscitato dalla famigerata fotografia ci porta in questa direzione? Allora è un bene. Si risolve tutto in una nuova puntata di chi è il più antirazzista del reame? Allora è tutto un grande spreco. Le parole sono importanti. Le immagini pure. Contengono e per certi versi orientano i nostri pensieri e le nostre relazioni. Ma non basta dire che quelle degli altri sono sbagliate per avere la certezza di possedere quelle giuste.
Voi cosa ne pensate?
(Stefania Ragusa)