François-Xavier Gbré parla un italiano perfetto e non c’è da stupirsi. Per qualche anno infatti ha vissuto e lavorato a Milano. Aveva uno studio dalle parti di piazzale Loreto, in quella parte della città oggi pretenziosamente ribattezzata Nolo, e aveva messo un piede nel rutilante fashion system meneghino. Faceva da assistente a gente come Michel Comte, Fabrizio Ferri, Lorenzo Vitturi, e firmava produzioni per Casa Vogue ed Elle Decor. Ma si è trattato di un passaggio transitorio. La sua destinazione era e rimaneva l’Africa: Bamako prima e poi, in seguito al colpo di stato del 2012, Abidjan. Da lì suo padre era partito, anni prima, per raggiungere la Francia e, in particolare la città di Lille, dove avrebbe messo su famiglia.
François-Xavier Gbré, classe 1978, sin dall’adolescenza è stato attirato dagli spazi e dalle architetture in dismissione ed è considerato uno dei fotografi africani più interessanti della sua generazione. Nell’etichetta fotografo africano però fatica a riconoscersi: «Sono cresciuto e vivo tra l’Europa e l’Africa, ho una doppia cultura, mi piace trovare collegamenti tra le cose e sentirmi semplicemente un fotografo».
Oggi al MAN, il Museo d’Arte della provincia di Nuoro si inaugura la sua prima personale italiana, Sogno d’oltremare: una narrazione visuale e onirica in cui Africa e Sardegna si compenetrano, si riflettono fino a confondersi. «Per costruire questa mostra ho fatto due distinti sopralluoghi, di diversi giorni, nel nuorese, trovando tanti punti in comune tra quest’isola e l’Africa Occidentale che ho visitato e fotografato in questi anni ». Punti in comune sono «lo sfruttamento del territorio, luoghi ed edifici abbandonati, la necessità per le persone di mettersi in viaggio, lasciando alle spalle la propria casa…».
La ricerca dei collegamenti, delle somiglianze è una costante di tutti i suoi lavori, ma anche un’attitudine rispetto all’esistenza: un’esigenza di quella mente biculturale che, con buona pace dei nostalgici sovranisti, sta diventando una cifra della contemporaneità e gli addetti ai lavori considerano il prossimo “salto in avanti” della specie umana.
Un altro elemento che ritorna è l’osservazione diacronica: «Mi incuriosisce la funzione originaria di un edificio, mi appassiona l’idea di ricostruire la sua storia, capire come è cambiato e come continua a cambiare». E’ un modo per far parlare il passato, riannodando i fili attorno a questioni rilevanti del presente: il colonialismo e la sua persistente eredità, le migrazioni, il rapporto tra nord e sud del mondo.
Per visitare Sogno d’oltre mare c’è tempo fino al 3 marzo.
Stefania Ragusa