C’è un fenomeno che si pensava relegato alle pagine dei libri di storia, o presso genti e terre lontane, e invece si trova nel cuore delle città occidentali. È la tratta degli esseri umani, dove la vita umana è entrata a far parte delle merci e riguarderebbe secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) 40 milioni di persone che vengono sfruttate a livello sessuale, lavorativo, per accattonaggio e attività illegali.
Di Fabrizio Floris
Si è trattato di uno scivolamento progressivo dello sguardo (e delle scelte individuali) frutto di un immaginario colonizzato che ha portato gli occhi dei più a considerare nella normalità dell’esistenza l’esposizione di corpi lungo le strade, di persone accatastate in baracche dove la vita sembra essere senza possibilità di scelta come se la libertà fosse incastonata in una sorta di servitù volontaria. Per le ragazze nigeriane il vincolo si chiama gbesé, (debito). Un prestito economico e morale, ineludibile se non con la morte, che migliaia di donne devono restituire all’organizzazione che le ha fatte arrivare in Italia. Un fenomeno complesso che segue varie diramazioni che, tuttavia, hanno un medesimo approdo: il marciapiede.
Le modalità di arrivo sono diverse c’è, soprattutto per le donne provenienti da Benin City, la forma “contrattuale” del debito, per le donne provenienti dall’est Europa ci sono i “fidanzati” che attraverso un mix di ricatti psicologici, violenze fisiche e minacce tengono ancorate le persone ad una scelta inconsapevole: una trappola da cui sembra non esserci via di uscita. La tratta è un tema complesso che mette in connessione diversi fenomeni: prostituzione, migrazione, traffico di esseri umani, legislazione e contrasto. Un intreccio multiforme la cui lettura non è univoca. In primis perché la diversa provenienza delle persone vittime di tratta mette in gioco dimensioni e modalità differenti di reclutamento e sfruttamento (ed eventuale compartecipazione delle vittime).
La variabilità del fenomeno è data anche dall’azione legislativa a livello nazionale ed internazionale che in modo esogeno ha inciso sui temi della migrazione, della prostituzione e dello sfruttamento. Negli anni si sono consolidate, inoltre, forme di sfruttamento organizzato da parte di associazioni di persone che sono state configurate come mafie. In ultimo è emersa la stretta correlazione tra il traffico di esseri umani e i sistemi di protezione internazionale dei rifugiati perché in un solo soggetto si sono sovrapposte due categorie giuridiche in passato considerate distinte.
Oltre all’analisi sociologica e statistica del fenomeno il libro “Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali” (di Fabrizio Floris) entra nelle storie e nei luoghi: uno su tutti la Libia. Infatti, la tratta ha un punto fisico nevralgico che si chiama Libia: è qui che tutte le ragazze che sono nelle accoglienze dichiarano di essere state violentate. “A me è successo tante volte di essere violentata” spiega Faith. Non solo violenze, ma anche “botte, torture, essere stati trattati come degli animali…”… “Tutte le notti venivano in due a puntarmi la torcia in faccia e a violentarmi. In Libia sono diventata una cosa”. Piange e poi spiega “non ho pianto per le violenze sessuali subite, ma perché se non fosse per l’amore di Dio non sarei qui oggi. Appena sono salita sulla barca il capo mi ha fatto scendere perché era troppo piena. Ho iniziato a piangere perché era da mesi che aspettavo di partire, ma poi quella barca è affondata e tutte le persone a bordo sono morte. Ringrazio Dio per avermi salvata, mi chiedo perché Dio ha scelto di salvarmi, per questo piango”.
Blessing racconta che quando è arrivata in Libia ha visto il fuoco, ha visto l’inferno. “La prima volta che ho provato a traversare il mare siamo stati tre giorni senza soccorsi, con i motori rotti in mezzo al mare e poi abbiamo visto un uomo su di una barca (libica) che ci ha portato sulla terraferma eravamo di nuovo in Libia. Ho provato la traversata per quattro volte. La quarta volta siamo partiti con una persona che neanche sapeva dove doveva andare. In mezzo al mare abbiamo visto una grande barca ferma. Alcuni dicevano di non avvicinarsi perché era una trappola. Alla fine abbiamo deciso di avvicinarci. Dalla nave hanno lanciato una corda e uno a uno siamo saliti. Nessuno aveva le forze, alcuni erano svenuti, ma piano, piano siamo saliti, alcuni però erano già morti. La nave non era italiana così hanno chiamato Roma per sapere se qualcuno sarebbe venuto a prenderci perché altrimenti ci avrebbero riportati in Africa. Da Roma hanno accettato e il giorno dopo sono venuti a prenderci. Quando siamo saliti sulla nave non sapevamo bene dove saremmo arrivati, ma poi abbiamo visto un crocifisso e abbiamo capito che non saremmo andati in un Paese musulmano. Poi ci hanno detto che saremmo sbarcati a Lampedusa”.
Le violenze, tuttavia, almeno per alcune ragazze, non sono finite in Libia. Racconta Joy: “a me è successo anche in Italia… uno a Roma mi ha preso con la forza, mi ha violentata e poi non mi ha pagato. Quando sono tornata a casa la madama mi ha detto: forse tu hai fatto qualcosa…è colpa tua che non hai guardato bene la faccia che aveva, è colpa tua dovevi capirlo dalla faccia che era una persona pericolosa. Quindi per me la violenza è stata doppia”.
Dopo tutte queste violenze, il soccorso in mare, l’arrivo in Italia appare salvifico “pensi sono salva, il peggio è passato”. Quando la madame “ti chiama la vuoi raggiungere perché credi che quella persona ti cambierà finalmente la vita e così esci dal centro di accoglienza senza sapere che sei di nuovo in trappola… tutto comincia di nuovo”. Tuttavia, non mancano le storie di riscatto che partono dalle accoglienze, dai progetti del Numero Verde Anti-Tratta, da piccole e grandi associazioni laiche e religiose che danno vita ai giorni.
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