Durante una calda mattina di luglio mi ha concesso una breve intervista nel suo atelier: una stanza della residenza Fersina, la ex caserma gestita da Cinformi (PAT) che a Trento sud ospita i profughi richiedenti asilo.
Passata la prima notte in una grotta infestata da scorpioni e serpenti, il viaggio sui foristrada è proseguito nei giorni seguenti.
La permanenza nell’ex colonia italiana è stata, per Sule e per tutti i migranti subsahariani, un’esperienza terribile, della quale pochi parlano.
In assenza di uno Stato di diritto garantito da un governo centrale stabile, le angherie nei confronti dei profughi (furti, violenze e anche omicidi) sono tutt’altro che infrequenti.
Dopo l’imbarco su un gommone, Sule ha iniziato, insieme ad altri, la traversata del Mediterraneo, fino a quando una nave della Guardia costiera italiana ha incrociato l’imbarcazione e salvato i migranti.
La serie si conclude con l’arrivo della guardia costiera e con una frase che riunisce gratitudine e speranza.
Guardando le opere di Sule Hamza è difficile non accorgersi di come uno dei pregi maggiori sia quello di saper comunicare, senza retorica e con grande empatia, le condizioni terribili del viaggio.
Come già per le guerre mondiali l’arte svolge qui, oltre a una testimonianza storica di una questione poco presente nei media europei, anche un’importante funzione psicoanalitica, aiutando nel percorso di rielaborazione dei lutti e delle esperienze traumatiche, altrimenti destinati a rimanere confinati nelle coscienze dei singoli migranti.
Come rilevato infatti da Medici Senza Frontiere e da altre organizzazioni che si occupano della salute, anche mentale, dei profughi, i migranti fanno fatica a parlare di ciò che gli è successo, provano un senso generale di vergongna e spesso, come accaduto ai reduci della Shoah, temono di non essere creduti.
• Luca Pisoni (antropologo e docente, autore del libro Il bagaglio intimo, Meltemi) ha un blog su cui questo testo è stato pubblicato originariamente).