Nelle assolate campagne attorno a Dodoma, capitale della Tanzania, tra le acacie e i baobab, ci sono anche i vigneti. Il merito è di una cantina sociale, ideata da un imprenditore italiano che produce ed esporta ottimo vino.
Le giornate a Hombolo iniziano presto. Già prima dell’alba la strada polverosa che esce dal villaggio è percorsa da file di contadini, camioncini carichi di mercanzie, carretti trainati dai buoi e gremiti di braccianti dall’aria assonnata. I traffici con la capitale Dodoma, distante appena 40 chilometri, sono intensi. In pochi anni quello che era un sonnecchioso grumo di baracche si è trasformato in una cittadina dinamica che fatica a contenere oggi i suoi oltre 22mila abitanti.
L’intuizione dei missionari
«Merito del nostro vino», assicura Fiorenzo Chesini, ingegnere veronese, 48 anni, artefice di un’impresa che sta rianimando il cuore della Tanzania. «Nel 2005 fa questa era una zona povera e depressa: la popolazione vivacchiava con miseri raccolti di mais, fagioli, patate; molti giovani cercavano fortuna emigrando. La svolta è arrivata con l’avvio della produzione vinicola».
Vino nella savana, tra acacie e baobab? Pare impossibile, eppure la regione di Dodoma, situata su un altopiano di 1.100 metri, offre condizioni ambientali e topografiche favorevoli alla coltivazione della vite. Il clima è gradevole e ventilato, con temperature che oscillano tra i 20 e i 35 gradi, la terra è buona, acqua e sole non mancano: ogni anno si possono fare due vendemmie. Il primo a capirlo fu un missionario italiano, padre Cesare Orler, sacerdote trentino dalla lunga barba bianca, che una trentina di anni fa importò alcune piante di vite di Teroldego e Marzemino, allo scopo di produrre vino per la Chiesa locale. «C’era perfino riuscito, il bravo missionario, a far crescere i vigneti, ma inviato in una nuova missione aveva dovuto lasciare la coltivazione in mani meno esperte», racconta Chesini che nel 2002 giunse a Hombolo, invitato da un’associazione umanitaria, per scavare un pozzo d’acqua potabile. «Quando arrivai mi accorsi della presenza delle vecchie viti. Incuriosito, assaggiai l’uva: era buonissima. Fu allora che mi venne l’idea di aprire una cantina».
Il business dell’uva
Il governo tanzaniano aveva già tentato l’impresa, ma i risultati erano stati deludenti. La Tanganika Vineyards Company non era riuscita a decollare per carenza di tecnologia e di professionalità adeguate. «Fanno il peggior vino del mondo: decisamente imbevibile», fu il ruvido commento della guida Routard. Per molti osservatori stranieri, i progetti vinicoli della Tanzania erano destinati a fallire. Ma Chesini – cresciuto sulle colline della Valpolicella, tra vigneti e cantine – era convinto della possibilità di migliorare quantità e qualità del prodotto. In breve tempo fece arrivare a Hombolo un team di esperti professionisti: il miglior know how italiano in materia di enologia e agronomia. Alle coltivazioni avviate dai missionari affiancò vitigni nobili quali l’Aglianico, lo Shyra, lo Chardonnay e lo Chenin Blanc, originario della Loira. Infine ricavò, da un vecchio deposito di cereali in mezzo alla savana, una moderna cantina dotata delle più sofisticate attrezzature: enormi serbatoi di fermentazione e di stoccaggio in acciaio inox, macchinari per l’imbottigliamento e l’etichettatura, un laboratorio di ultimissima generazione per l’analisi dell’uva e del vino.
Per l’avvio dell’impresa Chesini coinvolse la Fondazione San Zeno di Verona, che finanzia progetti di sviluppo nelle zone disagiate. Nacque così nel 2005 la Cetawico (Central Tanzania Wine Company). La prima vendemmia fornì 500 ettolitri di vino, l’anno dopo la produzione raddoppiò. Nel 2007 gli ettolitri di vino diventarono 2.200, nel 2009 oltre diecimila, nel 2010 arrivarono a 18mila ettolitri: un ritmo di crescita pazzesco. «Subito ipotizzai che la Tanzania sarebbe diventata il secondo produttore di vino del continente, dopo il Sudafrica», puntualizza Chesini, che godeva del sostegno delle autorità locali (all’allora Capo di Stato Jakaya Kikwete, affezionato cliente della cantina, fu dedicata la prestigiosa etichetta Presidential).
Un’impresa sociale
Gli effetti del business si vedono: i vigneti hanno ripreso a popolare le campagne attorno a Dodoma e molti giovani hanno rinunciato a fuggire in città per dedicarsi alla viticoltura. La coltivazione è completamente biologica, bandito l’uso dei fertilizzanti chimici. I viticoltori vengono istruiti con corsi di aggiornamento tenuti da esperti agronomi. Un mese dopo la vendemmia ricevono generosi compensi. Uno dei meriti della riconversione dei vigneti è infatti stato quello di portare occupazione e benessere in tutta la zona. La filosofia dell’azienda è sempre stato quello di sostenere gli africani con investimenti, formazione e progetti imprenditoriali, non con aiuti ed elemosina.
Le bottiglie della cantina sono arrivate in Europa e negli Stati Uniti dove hanno ottenuto importanti riscontri. Ma da molto si lavora per sviluppare il mercato interno: se migliaia di turisti occidentali in vacanza hanno mostrato di apprezzare il prodotto, la gran parte della popolazione tanzaniana ha sempre preferito ingollarsi di birra. A Cetawico lo staff è consapevole che si tratti di una questione culturale che prende il suo tempo, ma sono anche ottimisti: il vino è sempre più presente nei supermercati delle grandi città, e la nuova classe media sta scoprendo il piacere di festeggiare il successo con un calice di vino. E grazie a Cetawico la gente di Hombolo ha avuto ottimi motivi per brindare.
(testo di Marco Trovato, foto di Marco Garofalo)