di Michele Vollaro
Già nel 2021 la maggior parte dei Paesi dell’Africa sub-sahariana ha dovuto confrontarsi con forti tensione inflazionistiche causate dall’aumento dei prezzi energetici sui mercati internazionali, ma l’invasione russa in Ucraina dello scorso ha esacerbato ulteriormente la situazione. In Africa occidentale sono numerosi i Paesi dove l’aumento dei prezzi ha superato la doppia cifra percentuale, ma alcune valute sembrano essere più resistenti alle pressioni.
Ad aprile i prezzi al consumo in Ghana sono cresciuti del 23,6% su base annua, segnando un netto aumento della pressione inflazionistica che soltanto il mese prima aveva toccato quota 19,4%. Si tratta del dato più alto degli ultimi 18 anni e più del doppio della stima prevista per l’anno in corso dal governo di Accra in una forchetta compresa tra il 6 e il 10%. Non è solo il Ghana, però, a registrare aumenti dei prezzi con percentuali a doppia cifra. La vicina Nigeria, sempre ad aprile, ha registrato un tasso di inflazione del 16,8%, rispetto al 15,9% di marzo, mentre in Burkina Faso l’aumento dei prezzi ha raggiunto il 15,1% (dopo aver toccato il 13,5% a marzo). Restando tra i Paesi dell’Africa occidentale, a marzo i prezzi al consumo sono aumentati del 22% in Sierra Leone e del 12,4% in Guinea.
Si tratta di percentuali che, secondo gli economisti, sono destinate a crescere ancora a causa soprattutto delle conseguenze sui mercati internazionali del conflitto tra Russia e Ucraina, legate in particolare alle difficoltà di approvvigionamento di materie prime agricole come grano e mais di cui i due Paesi in guerra sono tra i maggiori esportatori mondiali e tra i principali fornitori di numerosi Stati africani. Nel suo ultimo rapporto sulle prospettive economiche del continente, il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva infatti già rivisto al rialzo le proprie stime sull’inflazione nei Paesi dell’Africa sub-sahariana prevedendo che potesse raggiungere quest’anno una percentuale del 12,2%, per la prima volta dalla crisi finanziaria globale del 2008, rispetto al 2% registrato invece nel 2019 e in aumento rispetto a una previsione dell’8,6% diffusa prima del conflitto russo-ucraina. Ma, alla luce del fatto che il blocco delle esportazioni dai porti ucraini causato dall’invasione russa ha già comportato un ulteriore aumento del prezzo di grano e mais sui mercati internazionali rispettivamente del 22% e del 20% nei 30 giorni successivi all’inizio delle ostilità, il rischio è che la spirale inflazionistica in Africa sia soltanto all’inizio, aumentando così le preoccupazioni sulle aspettative di una crescita inclusiva e sostenibile nel continente.
A far temere un possibile ritorno a una situazione caratterizzata da inflazione cronica e spinte recessive come negli anni Settanta del secolo scorso è soprattutto il peso maggiore che hanno sui redditi delle popolazioni che vivono in un’economia in via di sviluppo le spese per acquistare il cibo rispetto a quanto accade in un Paese ad economia avanzata. Stando ai dati della Banca mondiale, infatti, in media in Africa almeno il 40% delle spese domestiche sono destinate all’acquisto di cibo, mentre nel cosiddetto primo mondo questa percentuale si aggira intorno al 10-15%. Conseguentemente, per le economie africane, l’impatto dell’aumento dei prezzi alimentari inciderà maggiormente rispetto a quanto avviene nei Paesi più avanzati, poiché la quota delle spese alimentari nel bilancio delle prime è maggiore. Basti pensare che in Africa occidentale, la percentuale della spesa per i consumi alimentari rispetto al totale delle spese domestiche è superiore al 50%, con punte del 65% in Niger e del 68% in Liberia.
Una condizione che la vice-segretaria delle Nazioni Unite e direttrice per l’Africa del Programma di sviluppo Undp, Ahunna Eziakonwa, ha descritto come il paradosso del Comma 22 cioè un circolo vizioso che apparentemente non offre opportunità di scelta. “Le interruzioni delle catene di approvvigionamento in Russia e Ucraina hanno spinto i prezzi dei prodotti alimentari importati oltre la portata di molti, mentre l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti limiterà la produzione locale di prodotti alimentari”, ha detto Eziakonwa in un’intervista rilasciata ad Africa Confidential sottolineando come “il vero impatto della carenza di fertilizzanti si vedrà più avanti nell’anno e il prossimo anno”.
La preoccupazione è legata in particolare al possibile “aggressivo inasprimento delle condizioni finanziarie” – già iniziato con l’aumento dei tassi di interesse in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – che potrebbe causare il deprezzamento delle valute africane e provocare crisi finanziarie in diversi Paesi, pregiudicando la sostenibilità del debito estero proprio mentre va a concludersi l’Iniziativa per la sospensione del servizio del debito, promossa nel 2020 dalla Banca mondiale quando la pandemia di Covid-19 cominciava a diffondersi in tutto il mondo.
Ed è proprio a partire da tale considerazione che appare significativo soffermarsi sui dati disaggregati dell’inflazione in Africa occidentale, dove i Paesi che utilizzano come valuta ufficiale il franco cfa – il cui valore è ancorato all’euro in un regime di cambi fissi – stanno registrando percentuali di aumento dei prezzi al consumo inferiori rispetto ai loro vicini che emettono valuta a corso legale cosiddetta fiat, cioè non coperta da riserve, il cui valore intrinseco è esclusivamente nominale. Guardando infatti i dati relativi al mese di marzo, e con l’eccezione del già citato Burkina Faso che ha registrato un tasso del 13,5%, gli altri sei Paesi riuniti nell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa) segnano tutti rialzi inferiori al 10%: il Togo registra un aumento dei prezzi dell’8,8% annuo, il Mali dell’8,3%, la Guinea-Bissau del 6,8%, il Senegal del 6,2%, il Niger del 5,3%, la Costa d’Avorio del 4,5% e il Benin addirittura del 2%. Percentuali simili sono state comunicate anche dalla Banca degli Stati dell’Africa centrale (Beac), che riunisce i sei Paesi della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac): a marzo l’inflazione in Repubblica democratica del Congo si è fermata al 6,9%, in Camerun al 6,3%, in Guinea equatoriale al 4%, in Ciad al 3,5%, in Gabon al 2,9% e al 2% in Repubblica del Congo.
Numeri che sembrano confermare i dubbi dei sostenitori del franco cfa sull’opportunità di abbandonare questa moneta ancorata a una valuta forte come l’euro in un momento in cui le economie africane presentano ancora gravi fragilità e rischiano di mettere una pesante pietra sopra gli sforzi delle autorità regionali dell’Africa occidentale verso la creazione di una moneta unica, i cui meccanismi di stabilità – secondo quanto discusso già più di due anni fa dal presidente francese Emmanuel Macron e dal suo omologo ivoriano Alassane Ouattara – sarebbero in ogni caso garantiti sempre dal cambio fisso con l’euro. Insomma, la pandemia prima e la guerra tra Russia e Ucraina ora hanno contribuito a mettere in luce le difficoltà e le complessità nel raggiungere una piena sovranità finanziaria e monetaria se in precedenza non si risolvono questioni fondamentali qual è, solo per fare un esempio, la necessità di importare da fuori il continente più di un terzo del fabbisogno alimentare della popolazione africana.