a cura di Marco Trovato – direttore editoriale della rivista Africa
Minerali pregiati, metalli strategici, idrocarburi: il tesoro del sottosuolo africano dovrebbe rendere le popolazioni di questo continente tra le più ricche al mondo. I dati raccontano un’altra storia: il numero dei poveri a sud del Sahara è raddoppiato negli ultimi trent’anni (mentre in Asia e America Latina è dimezzato) e si prevede che entro il 2030 oltre l’80% degli indigenti globali – chi vive con meno di due dollari al giorno – sarà in Africa.
Le cause sono molteplici e s’intrecciano, ma non c’è dubbio che la mancata valorizzazione del settore minerario è uno scandalo inaccettabile e che chiama in causa i governanti africani come i principali attori dell’economia mondiale (Cina e Occidente). L’industria estrattiva è per sua natura predatoria: fa gli interessi delle multinazionali straniere e di una ristretta oligarchia locale, avida e corrotta. Il problema cruciale è che le materie prime del continente (non solo minerarie) vengono ancora oggi esportate in forma grezza, ovvero non lavorate, benché sia noto che è il processo di trasformazione a creare maggior ricchezza (e posti di lavoro).
Gli effetti sono paradossali. La Nigeria, primo produttore africano di petrolio, deve importare a prezzi folli la benzina, che è raffinata all’estero. Gran parte dell’oro dell’Africa centrale e occidentale viene lavorato a Dubai, che pur senza miniere è annoverato fra i maggiori esportatori di questo metallo nobile. La Repubblica Democratica del Congo, “scandalo geologico” che vanta il più grande assortimento di giacimenti al mondo(rame, diamanti, oro, piombo, manganese, argento, coltan, cobalto, terre rare…), viene saccheggiata impunemente e i traffici criminali alimentano instabilità, miseria e sfruttamento, come testimonia il servizio di pag. 16.
Per cercare di risanare i conti dello Stato, talvolta sotto la spinta dell’opinione pubblica, stanca di assistere inerme alla spudorata razzia di tanta ricchezza, i leader di alcuni Paesi hanno preso la storica decisione di vietare l’esportazione di minerali grezzi. La citata Rd Congo ha imposto il divieto sulla vendita di cobalto e rame non processato (ma fatica a farlo rispettare). La Tanzania ha vietato l’esportazione di gemme d’oro non lavorate nel tentativo di stimolare la creazione di valore aggiunto locale. Lo Zimbabwe, maggior produttore di litio africano (essenziale per le batterie delle auto elettriche), ne ha bloccato l’export allo stato grezzo, ben presto imitato dalla Namibia (che ha già frenato lo sfruttamento selvaggio dell’uranio, di cui è il primo produttore africano, mentre la giunta golpista del Niger è sinora ferma ai proclami propagandistici contro la Francia).
Decisioni simili vengono prese anche in altri settori. Il Mozambico ha proibito l’esportazione di tronchi d’albero non lavorati (anche per salvaguardare le ultime foreste), mentre alcuni Paesi come la Costa d’Avorio hanno annunciato la volontà di trasformare in proprio i prodotti agricoli (nel suo caso, il cacao) che riforniscono l’industria alimentare mondiale ma senza sfamare le popolazioni locali. Sono i primi segnali, timidi ma importanti, di una vera rivoluzione – ancora agli albori – che punta a migliorare l’uso delle risorse naturali e a cambiare il modello economico malato che finora fa gli interessi di pochi lasciando irrisolti i problemi del sottosviluppo, della sicurezza alimentare e della stabilità sociale. La domanda è una sola: le potenze economiche mondiali – che basano la loro egemonia sulle attuali regole di mercato – permetteranno all’Africa di valorizzare le proprie ricchezze?