In fuga dalla siccità

di claudia

di Simon Valmary – foto di Eduardo Soteras / Afp

Nelle regioni sud-orientali dell’Etiopia la prolungata assenza di precipitazioni sta mettendo in ginocchio le comunità pastorali. «Scappiamo dalla grande sete che ha già sterminato il bestiame» I pastori somali chiamano la siccità con il termine sima – che nella loro lingua significa “identico” o “uguale” perché colpisce tutti in egual misura, indistintamente. Quattro milioni e mezzo di capi di allevamento sono già morti. E dodici milioni di persone soffrono la fame. Chi può vende l’ultimo bestiame e scappa

Mohammed Hassan Gureh, 32 anni, ha deciso: venderà le ultime capre e lascerà il villaggio in cerca di una nuova vita. Come molti pastori dell’est dell’Etiopia, si vede costretto a rinunciare alla vita nomade dopo aver visto il suo bestiame decimato dalla siccità. Dice che non sopporta più di veder morire i suoi animali. «Avevo 250 capre, me ne rimangono 35», racconta sconsolato. A El Gel, il suo villaggio in un angolo dell’Etiopia sud-orientale, due terzi degli animali sono stati sterminati.

Come tanti altri pastori del Corno d’Africa, Mohammed ha atteso disperatamente per oltre due anni piogge che non sono arrivate. Le ultime cinque stagioni delle piogge sono sfumate, generando la peggiore siccità degli ultimi quattro decenni in Etiopia, Somalia e Kenya. A maggio, mentre la Romagna era flagellata dall’alluvione, in pochi giorni sulla Regione dei Somali etiopica si è riversata un’ondata di precipitazioni eccezionali, seminando devastazione e morte. Un evento estremo e di breve durata. Poi è tornato il sole, implacabile. E han ripreso a morire animali e persone.

Futuro incerto

Secondo l’Onu, la siccità ha precipitato 12 milioni di persone nella sola Etiopia in una «grave insicurezza alimentare». Più di 4,5 milioni di capi di bestiame sono morti dal 2021 e altri 30 milioni, «indeboliti ed emaciati», sono a rischio, spiega Ocha, l’agenzia umanitaria dell’Onu.

Mohammed ha aspettato e pregato, ma si è arreso alla realtà. «Non ci sono segni di miglioramento. Penso che la siccità continuerà e peggiorerà». Ha deciso di vendere le ultime capre prima che sia troppo tardi. Con la piccola somma di denaro che guadagnerà lascerà El Gel per la vicina cittadina di Callafo, sperando di poter finalmente mantenere la moglie, i quattro figli, il padre cieco e la madre storpia.

I suoi piani sono vaghi: probabilmente venderà carbone vegetale, legna da ardere o incenso. «È una decisione molto difficile passare da pastore di capre a un nuovo modo di vivere che non conosco… Ma non ho scelta». Altri sperano ancora in un miracolo. L’amico di Mohammed, Bele Kalbi Nur, ha perso il 90% del suo gregge, ma cerca di tirare avanti con le dieci capre rimaste. «Non so fare altro che il pastore nomade», dice. «Non sono istruito e non so coltivare, questo è l’unico modo che conosco per sopravvivere». Il 29enne ha diviso la sua famiglia, affidando quattro degli otto figli alla suocera, che vive a una trentina di chilometri di distanza.

«Ho perso tutto»

In tutta l’Etiopia sud-orientale nonché nelle aree del Kenya e della Somalia colpite dalla siccità, decine di migliaia di pastori affrontano lo stesso dilemma. Per generazioni hanno vagato per terre aride in cerca di pascoli e acqua per i loro animali. Capre, vacche e cammelli fornivano loro latte e carne, e denaro quando venivano venduti. Poi i pascoli si sono trasformati in polvere e i pozzi si sono prosciugati. Oggi, un numero crescente di nomadi abbandona la vita itinerante per un’esistenza sedentaria in città o nei campi per sfollati dove si distribuiscono aiuti umanitari. «Nella Regione dei Somali abbiamo circa un milione di sfollati», il 20% dei quali per il conflitto ma l’80% a causa della siccità, afferma Abdirizak Ahmed, responsabile per l’Etiopia orientale di Save the Children. «E il numero continua a crescere». Alaso Abdi, 70 anni, si è presentata al campo di Berley presso la città di Gode dopo aver perso i suoi 10 cammelli e 500 capre. «Nella mia vita precedente ero felice, avevo i miei figli, e animali che davano latte e carne», racconta. «Ci spostavamo liberamente da un posto all’altro, ora non ho nessun posto dove andare».

La popolazione chiama la siccità con il termine sima – in somalo significa “identico” o “uguale” – perché colpisce tutti in egual misura. In tutta la regione si registrano le stesse storie di angoscia, mandrie devastate e disperate richieste di aiuto. Da mesi le organizzazioni umanitarie si sgolano per lanciare l’allarme. Ad Antalale, a circa 40 chilometri da Callafo, gli animali sono quasi scomparsi, le loro carcasse riarse sono sparse attorno al villaggio. «Salvate la nostra gente», supplica Mahad Astur Kahin, un residente. «La vita delle persone è in pericolo. La maggior parte ha lasciato il villaggio per la fame, e chi è rimasto non ha più niente».

Questo articolo è uscito sul numero di 5/2023. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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