Dakar: tra nuove infrastrutture e fermenti culturali.
Nuove infrastrutture per la capitale
“Dakar ha ingranato la quarta”: penso aggirandomi nel nuovo aeroporto internazionale della capitale senegalese, intitolato a Blaise Diagne, primo deputato africano nel parlamento francese. La struttura, inaugurata nel dicembre 2017, è tirata a lucido. I pannelli ondulati del soffitto, i negozi con brand internazionali, l’arredo “occidentale” costituiscono il nuovo “biglietto da visita” del Senegal. L’aeroporto precedente infatti, il “vecchio” Leopold Senghor, era sì più vicino alla città (e quindi più comodo), ma anche decisamente più modesto.
All’esterno il caldo della notte africana mi accoglie. È quasi mezzanotte e il taxi, seppur malconcio, sfreccia sull’autostrada.
“È fortunata” mi sorride il conducente “solo a quest’ora non rimarremo bloccati nell’“embotteillage”. Eh sì, Il fatidico emotteillage di Dakar… il traffico capace di immobilizzare e strangolare ogni strada della capitale a qualsiasi ora del giorno. Un incubo quotidiano per lavoratori e turisti di qualsiasi classe sociale. Impossibile sfuggirgli, a meno che non si accetti il rischio di prendere un passaggio in moto da qualche moto-taxi (abusivo).
Dal finestrino scorrono poche luci, almeno fino a quando l’autostrada non costeggia il pentastellato Radisson Hotel, presso la nuova città ministeriale di Diamiadio. “Quando sarà completata ospiterà 15 ministeri e più di 10mila funzionari” mi spiega il conducente, con un’espressione che non capisco se sia d’orgoglio o di scetticismo. “Dakar è diventa un cantiere unico” continua “a fine anno dovrebbe entrare in funzione anche il treno espresso regionale che dall’aeroporto porterà alla ristrutturata stazione ferroviaria”. E a questa prospettiva la sua espressione si è fatta preoccupata: per lui significherà una sensibile riduzione di business. “E cosa ne pensa del Museo delle Civiltà Nere inaugurato a dicembre?” gli domando. Mi fa ripetere il nome tre volte e poi scuote la testa: non ne conosce neppure l’esistenza.
Un Museo per decolonizzare il pensiero
Eppure il nuovo Museo delle Civiltà Nere, con i suoi 14mila metri quadri di superficie, è monumentale e come tale non passa inosservato. Con grandi vetrate al piano terra, posizionato di fronte al Grande Theatre, ha una forma cilindrica che ricorda le case tradizionali della Casamance. Per il momento (luglio 2019) il biglietto si paga solo in contanti. “Se il museo ha aspirazioni internazionali” faccio notare all’ingresso “la prima cosa è acquistare un lettore di carte di credito”. Ma l’impressione che il Presidente Macky Sall abbia voluto a tutti i costi inaugurare il museo ancor prima di aver risolto varie questioni (tra tutte quella spinosa sulla restituzione di oggetti d’arte africana pre-coloniale ancora gelosamente conservate nei musei europei) è confermata dal fatto che il secondo piano del Museo è chiuso, semplicemente perché vuoto.
“Il Museo vuole essere un centro importante sull’identità dei popoli africani a prescindere dai reperti antichi” mi spiega però Babacar Mbow, direttore del Museo e curatore dell’esposizione di arte contemporanea allestita in alcune sale del primo piano. “L’obiettivo non è nostalgico” spiega in un impeccabile inglese “Non vogliamo commemorare la nostra storia tradita e rubata dal colonialismo… desideriamo piuttosto creare un laboratorio per le identità africane. L’umanità nasce in Africa, deriviamo tutti da qui” continua infervorandosi “Vogliamo presentare il contributo dei neri alla storia dell’uomo, ma anche guardare al futuro. Deve essere un Museo ricco di attività, in continua evoluzione, che ospita artisti e sperimentazioni da varie parti del mondo. Noi africani, se vogliamo diventare protagonisti, dobbiamo prima di tutto decolonizzare il nostro pensiero ed essere orgogliosi della nostra identità”. Prima di uscire, noto un gruppo di bambini senegalesi guardare con ammirazione il gigantesco baobab di metallo che si erge al centro del museo. Babacar Mbow ha ragione: per decolonizzare il pensiero bisogna anche offrire, fin da piccoli, stimoli culturali e creativi per immaginarsi e proiettarsi nel futuro.
La cultura “dal basso”: Festival del Teatro Forum
La Dakar del terzo millennio però non è solo quella delle iniziative che “calano dall’alto”. Di capillare riuscita è, ad esempio, il Festival “Teatro Forum” organizzato dal 24 al 29 luglio a Yerrax, un barrio popolare dal quale sono in tanti a sognare di emigrare. Il Festival, arrivato alla sua 15sima edizione, ha ospitato quest’anno più di cento attori e attrici e si intitolava “Matt Jott”, che in lingua wolof significa “è tempo di crescere”. “Dobbiamo crescere e cambiare le nostre relazioni con l’Europa” mi spiega Amadhou Diol, direttore del Festival e del gruppo teatrale Kaddu Yerrax, attivo tra i giovani del quartiere. “Rischiare la vita per essere poi umiliato o disprezzato al di là del Mediterraneo è sbagliato” continua. “Dobbiamo piuttosto crescere e cambiare le nostre relazioni con l’Europa. Non comportarci come dei bambini che si confrontano con le industrie, le economie o con i governi europei. I nostri leader politici devono crescere e creare un’ economia autonoma, staccandoci dalla colonizzazione”.
Diol ha deciso di scuotere le coscienze dei suoi connazionali attraverso il teatro e così organizza ogni anno il Festival nella scuola dove lui stesso ha studiato. I gruppi teatrali, che provengono principalmente dal Senegal, ma alcuni anche della Mauritania, dalla Guinea Bissau, dal Togo e dal Mali, si sistemano nelle aule con i materassini distribuiti sul pavimento. Alcune aule sono destinate ai laboratori teatrali che ogni mattina mischiano attori e registi in uno scambio di esperienze e improvvisazioni molto prolifico. Una decina di donne del quartiere prepara per tutta la settimana colazioni, pranzi e cene che vengono distribuiti e condivisi in grandi piatti, attorno ai quali ci si accoccola per mangiare.
Nel pomeriggio e durante le serate invece i gruppi si esibiscono gratuitamente e il pubblico partecipa con incredibile pathos, perché la formula del teatro è quella del “forum”: ovvero si mette in scena una situazione “delicata” e al termine della performance il conduttore invita il pubblico a discutere e a offrire soluzioni. Una sorta di teatro dell’oppresso che, a queste latitudini, ottiene un successo strepitoso e soprattutto attiva un processo di consapevolezza su alcune tematiche attualissime e spinose (vedi ad esempio la radicalizzazione o l’incesto). Un appuntamento insomma da tenere presente anche da questa parte del Mediterraneo e da appuntarsi in agenda per, perché no, partecipare il prossimo anno.
Una radio comunitaria
Infine, in un altro quartiere popoloso e popolare di Dakar, Pekine, esiste da vent’anni una realtà che, come il Festival del Teatro Forum, è nata “dal basso” e ancora oggi svolge un’importante funzione di riscatto e sviluppo. Si tratta della radio comunitaria Oxy-Jeune, “ossigeno per i giovani”. Più che una radio, è soprattutto un centro di formazione” spiega Pape Djiba, caporedattore dell’emittente. “Da qui sono passati quasi tutti i più importanti e affermati giornalisti del paese: della televisione, della radio, della carta stampata… è qui che hanno fatto pratica”.
Le rubriche e le trasmissioni sono diverse: informazione, cultura, sport, intrattenimento. E diversi sono anche gli idiomi: il francese, il wolof, e le altre lingue minoritarie affinchè ci sia la maggior inclusione possibile. Pape Djiba mi conduce orgoglioso a visitare gli studi, ad assistere al debutto di una giovane stagista alla quale tremano impercettibilmente le mani mentre legge sul foglio la notizia che lei stessa ha scritto (a mano, i computer sono centellinati).
Essere circondata da tutta questa energia ed entusiasmo mi contagia: esco anch’io più speranzosa e convinta che il futuro si giochi lontano dalla “vecchia” Europa. Poi però rimango imbottigliata nel traffico e inalo dal finestrino del taxi lo scarico di un camion obsoleto che in Occidente sarebbe rottamato da un pezzo. La strada da percorrere è ancora lunga.
(Elisabetta Jankovic)