Poppy osserva con viso corrucciato il foglio scuro e plastificato che tiene sulle ginocchia. Dopo aver tentennato qualche minuto, si fa coraggio e, all’improvviso, si alza in piedi e lo solleva verso il cielo con decisione. La lastra si illumina in controluce e palesa le ossa di una spalla spezzate e la vita di una donna interrotta.
Poppy, 52 anni, è una delle tante vittime di violenza che vivono in Sudafrica, nella regione di Rustenburg, meglio conosciuta come Platinum Mining Belt, dove si estrae il più grande quantitativo di platino al mondo e dove si registra uno dei più alti tassi di abusi sul genere femminile a livello globale. Una storia, dei dati, su cui si sofferma la Rivista Africa con un reportage pubblicato in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra oggi.
“Mio marito mi picchiava e insultava ogni giorno. Ci siamo sposati nel 2005, all’inizio era diverso. Poi ha incominciato a consumare alcolici ed è diventato violento. Guida i bus che portano i minatori ai pozzi di estrazione ma il sabato e la domenica passa il tempo a bere birra spendendo tutto ciò che ha: abbiamo due figli e lui spreca il denaro che servirebbe per sfamarli”, afferma la donna dopo essere tornata a sedere davanti alla sua casa nel villaggio di Bapong a una cinquantina di chilometri a ovest di Pretoria.
Purtroppo, le vittime di violenza in Sudafrica sono infatti davvero tante: stupri, percosse e violenza psicologica sono diventate nel Rustenburg parte integrante della routine quotidiana di molte ragazze e signore. In Sudafrica il livello di violenza contro le donne è generalmente molto alto e il tasso di femminicidio è quasi cinque volte più alto che nel resto del mondo, secondo i dati più recenti dell’Onu. Il Paese si trova in cima alla scala globale in termini di violenza contro le donne.
Una situazione che è stata aggravata dalla pandemia da covid-19. La quarantena forzata ha infatti generato in tutto il mondo un drammatico effetto collaterale: l’aumento della violenza sulle donne. Un triste dato che non ha risparmiato il Sudafrica dove si è verificata una vera e propria impennata del numero di casi di donne maltrattate all’interno della propria abitazione. Secondo i numeri forniti dalla polizia sudafricana, infatti, sono stati registrati quasi 10.000 stupri solo negli ultimi tre mesi.
Bridjette, una trentina di anni e due figli, ripercorre in lacrime quanto accaduto nella primavera del 2018: “stavo andando a trovare il mio fidanzato a piedi quando due ragazzi di vent’anni mi hanno fermata, immobilizzata e portata dietro a dei cespugli. Mi hanno violentata e poi lasciata per terra. Chiamavo il mio compagno col cellulare ma lui non rispondeva. Pensavo di morire così ho telefonato alla polizia”.
Traumi fisici e psicologici sono le conseguenze assicurate delle violenze. Ma in alcuni casi i danni possono essere anche più gravi: “molte donne contraggono l’Hiv oppure rimangono incinte senza realmente desiderare la gravidanza. Così si ritrovano ancora più isolate, senza forze e con figli da crescere completamente sole. Questo le porta a chiudersi in sé stesse e a vergognarsi di chiedere aiuto”, spiega un’operatrice di Medici senza frontiere che sottolinea l’importanza di alcuni interventi in queste zone: “il nostro programma prevede la Pep (Profilassi Post Esposizione), ossia un trattamento antiretrovirale a breve termine per ridurre la probabilità di infezione da Hiv dopo un’esposizione potenziale, come ad esempio in seguito a un rapporto sessuale non protetto o uno stupro”.
Il teatro di queste violenze è un luogo dove gravi disagi sociali rendono gli uomini frustrati e, in alcuni casi, inclini a bere e a sfogarsi contro le donne. Le terre del Rustenburg sono ricoperte da pozzi di estrazione di platino: distese di savana dalle quali le popolazioni locali sono state cacciate per far posto alle compagnie multinazionali. Le persone si trovano così a vivere ammassate in baraccopoli a ridosso delle miniere. Come nella shanty town che si trova nei pressi della cittadina di Rustenburg: viene chiamata Sondela, termine che, in lingua locale xhosa, significa ‘vieni un po’ più vicino’. Il nome deriva dal fatto che le prostitute che la abitano tendono a costruire le baracche sempre più attaccate al vicinissimo impianto di estrazione per poter abbordare i minatori quando escono dal lavoro.
Le possibilità di lavoro per uomini e donne sono infatti davvero pochissime: “le persone del posto non possono più coltivare le terre, così l’unico modo per guadagnare qualcosa per gli uomini è fare il minatore e per le donne o lavorare anch’esse in miniera oppure prostituirsi”, spiega Richard (nome di fantasia per proteggere l’interessato), sindacalista dei minatori, mentre cammina sopra la collina di rifiuti che incombe sulla distesa di baracche.
Le condizioni di lavoro sono infatti agghiaccianti: sottopagati e spesso provenienti da altri Paesi africani, si trovano a vivere in compound dove non vi è alcuna distrazione. Tra i sudafricani e nel mondo intero è vivo il ricordo della strage di Marikana dove nel 2012, le forze di polizia sudafricane uccisero 34 minatori in sciopero. Ma la situazione oggi è aggravata dal crollo del prezzo del platino che ha portato numerose compagnie a licenziare migliaia di dipendenti, peggiorando la già instabile situazione sociale. L’alcol per molti diventa così una distrazione, un rifugio che può, però, scatenare violenza anche sulle ragazze più giovani e indifese.
(Valentina Giulia Milani)