Angelica Pesarini è docente di Sociologia alla New York University di Firenze. Qui da tre anni tiene un corso, Black Italia, orientato a guidare gli studenti nella comprensione delle dinamiche razziali che caratterizzano la penisola. Il programma è ampio e va «dal razzismo scientifico di fine ottocento a Lampedusa». Colpita dalle proteste globali che si sono susseguite ovunque in nome di George Floyd, ha pubblicato un articolo costruito intorno a una domanda: come mai in Italia non ci sono state ondate analoghe di indignazione per morti magari meno mediatiche ma di certo più vicine? Pensiamo, per esempio, a quella di Soumaila Sacko, giovane maliano colpito al capo da una fucilata mentre raccoglieva lamiere per tirare su una baracca nel ghetto dei braccianti neri, nella piana di Gioia Tauro. Oppure ai senegalesi Modou Samb e Mor Diop vittime dell’estremista di destra Gianluca Casseri, responsabile della strage di Firenze. Pesarini fa altri esempi: Idy Diene, freddato sul ponte Amerigo Vespucci sempre a Firenze, Emmanuel Bonsu, picchiato dalla polizia municipale di Parma e “archiviato” come “Emmanuel negro”… La casistica italiana non è paragonabile a quella degli Stati Uniti ma è comunque fitta.
Che risposta si è data?
«È più facile mobilitarsi per ingiustizie e soprusi lontani che per vicende che toccano da vicino e che richiederebbero una rimessa in discussione di schemi mentali radicati, a partire dall’illusione, pervicacemente difesa, di vivere in un’Italia bianca. I morti vicini – Soumaila, Modou, Mor e gli altri – e i loro corpi ricordano che così non è. Il corpo di Floyd, invece, fa commuovere e indignare senza che questo implichi un faticoso cambio di prospettiva. Anzi, la visione ripetuta della sua tragica morte (una vera e propria pornografia del dolore) può addirittura contribuire ad alimentare l’idea di un’Europa illuminata e rispettosa dei diritti umani, opposta a un’America brutale in cui i poliziotti uccidono i neri. Ma l’Europa è tutt’altro che “innocente”. È stata l’Europa ad aver prodotto il colonialismo e lo sfruttamento dei corpi neri. Di razzismo in Italia si vuole parlare come di qualcosa che accade altrove. Di colonialismo si parla pochissimo e quando lo si fa è spesso in chiave revisionista. È un argomento che a scuola, anche all’università, non viene trattato e io trovo che questo non sia casuale. Ignorare una parte così consistente della propria storia permette di non affrontare le proprie responsabilità e di non andare al cuore della questione».
Cuore che sarebbe quel privilegio bianco che ormai è entrato nel dibattito italiano? Come si esplica il privilegio bianco da queste parti?
«Con l’idea che l’Italia sia bianca, le persone nere siano comunque ospiti e che l’italianità passi dal sangue. Questa convinzione ha un risvolto istituzionale visibile nella mai approvata modifica sulla legge per la cittadinanza. Lo ius sanguinis continua a prevalere sullo ius soli e sullo ius culturae. La convinzione che l’Italia sia bianca è illusoria ma persistente e innesca una serie di comportamenti discriminatori che danneggiano le persone razzializzate. Accanto alle vicende clamorose di cui Balottelli è spesso stato fatto bersaglio (il terrificante cartello apparso al suo debutto in Nazionale: “Non esistono italiani neri”) ce ne sono molte altre, meno clamorose che vengono minimizzate anche nel discorso pubblico. Il privilegio bianco passa anche di qui: dalla minimizzazione, dalla banalizzazione e dalla negazione di certe esperienze».
Cosa vorrebbe dire in concreto rinunciare al privilegio bianco?
«Abbandonare l’idea che l’italianità passi dalla bianchezza, dal biologico e lasciare che a parlare di razzismo siano persone che lo vivono sulla propria pelle. Mettersi in una posizione di ascolto. Il privilegio bianco si manifesta infatti anche con il permettersi di non vedere i colori. Una persona bianca può dire di non vedere il colore perché si trova in una posizione di normalità e invisibilità- essere bianchi in fondo significa rientrare nella cosiddetta “norma somatica”- ma non può arrogarsi il diritto di dire a me – che il colore lo vivo e per il quale vengo categorizzata– che il colore non conta. Una persona bianca ha un posizionamento sociale diverso da una persona razzializzata come non bianca e rinosocerlo è un passaggio fondamentale. Da un certo punto di vista, anche avere tolto la parola razza dalla Costituzione, come è accaduto in Francia, è un privilegio, perché vuol dire potersi permettere di eludere l’esistenza di un problema».
Ci sono però persone, anche nere, che pur vedendo il colore, ritengono paradossale farne “il” perno del discorso antirazzista. Anche perché, tra l’altro, sarebbero così lasciati fuori soggetti che sono vittime di politiche razziste ma neri non sono: i rom e gli ebrei, per esempio.
«Persone nere con una visione simile, nella mia esperienza, non ne ho incontrate molte. Noto invece che questo discorso mi viene fatto spesso da persone bianche che pensano di poter parlare di razzismo come fosse una questione di logica. Così facendo, il fatto di non trovarmi d’accordo con quello che una persona bianca può dire a me sul razzismo significherebbe, da parte mia, negare un dialogo. Per quanto riguarda l’esclusione di alcuni gruppi a scapito di altri mi sembra importante ricordare che l’antirazzismo, e i diritti umani in generale, non sono una torta per cui se me ne prendo una fetta io, qualcuno rimane senza. Se ci si batte contro le discriminazioni, in questo caso quelle basate sul colore, non ne traggono vantaggio solo le persone nere, perché non solo le persone nere ad essere razzializzate, pensiamo a persone latine, asiatiche, con background indigeno, nativo, ecc. Il problema di fondo di questa visione, però, è che ci sono moltissime forme di discriminazione che seppure hanno radici comuni si manifestano in maniera diversa ed è fondamentale riconoscerne le caratteristiche peculiari in modo da capirne la storia e la complessità. L’esempio degli ebrei usato spesso per parlare di “razzismo”, a mio avviso, è molto fuorviante perché gli ebrei sperimentano antisemitismo sono cioè stati storicamente perseguitati per la propria religione, indipendentemente dal colore. Cosi come per i gruppi Romaní che subiscono specifiche forme di discriminazioni diverse appunto da quelle di una persona di religione ebraica o diverse da quelle che può sperimentare una persona nera. Il fatto di mettere sotto l’etichetta “razzismo” ogni forma di discriminazione non è solo concettualmente sbagliato ma dimostra anche una certa pigrizia intellettuale».
In Italia ci sono sempre più persone miste. Come si collocano rispetto al concetto di privilegio bianco?
«Per persone “miste” in realtà si possono intendere una varietà di background, non sempre razzializzati, però la linea del colore ci dimostra che la bianchezza non è solo un privilegio ma anche una forma di proprietà che è stata storicamente protetta anche legalmente (si veda il lavoro di Charyl Harris). Nei contesti coloniali chi tra le persone nere di background misto poteva passare come persona bianca godeva di privilegi socioeconomici di cui le persone appartenenti allo stesso gruppo, ma più scure, non disponevano. La famosa one drop rule penso sia valida ancora oggi e la vicinanza somatica al bianco spesso è comunque una forma di protezione verso certe situazioni. Inoltre è essenziale ricordare che non è ma solo una questione di colore: ci sono sempre altre componenti coinvolte come il genere, la classe, l’orientamento sessuale, la religione ecc. Pensare solo in termine di colore è limitante e non utile».
L’obiettivo finale qual è? Una battaglia antirazzista centrata sull’abolizione del privilegio bianco a cosa punta?
«Al riconoscimento delle differenze, alla creazione di consapevolezza riguardo il proprio posizionamento, allo smantellamento di sistemi di oppressione fondati su certe ideologie che sono alla base delle moderne ingiustizie sociali. È essenziale però che questi cambiamenti avvengano su vari fronti -istituzionale, culturale ed economico- se vogliamo davvero produrre svolte durature».
(Stefania Ragusa)