Toccante, ma lontano dal pietismo. Colorato, comico, ironico, poetico. E capace di far cogliere allo spettatore con estrema discrezione i drammi esistenziali di chi, migrando, è passato attraverso la tortura o vive il disagio psichico provocato dallo spaesamento per l’incontro con una cultura totalmente altra. Gioioso e potente.
Tutto questo è stato per me lo spettacolo Io ero io, cui ho assistito ieri sera, 26 giugno, nella Giornata internazionale per le vittime di tortura, al Teatro Franco Parenti di Milano, gremito di un pubblico capace di un tifo da stadio. Uno spettacolo nato dal progetto TEATRO UTILE 2019, frutto della collaborazione dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano e del servizio di Etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda, patrocinato dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal Comune di Milano e con il supporto di Croce Rossa Italiana, Refugee Welcome, Fondazione Casa della carità, Naga, Artepassante, Art. 3.
Mi sono commossa fino alle lacrime, alla fine, e avrei continuato ad applaudire e applaudire. E non tanto per dire “siete stati bravi, mi avete fatto divertire”. Ma perché, davanti ai 15 rifugiati africani che hanno portato sul palco la loro ricerca di identità, di senso, di salute mentale, insieme a giovani attori italiani, mi sono riconosciuta. Ho avvertito che la loro ricerca è anche la mia, la nostra, e che quel po’ di felicità e di benessere che loro hanno trovato attraverso questo percorso artistico e terapeutico, è ciò cui tutti aspiriamo, quel senso gioioso di sé e del proprio esistere che TUTTI avrebbero il diritto di potersi costruire.
E dunque il mio applauso era un sì a loro, alla loro persona, alla loro vita qui, ora, in Italia, con me, con noi, in un mondo e in una società capaci di convivenza, di collaborazione, di scambio tra diversi.
In una giornata in cui si sono rincorse notizie su “capitani” e “capitane”, su altri 42 disperati lasciati ad arrostire su una nave, è stato consolante vedere le facce di italiani e italiane del Comune di Milano, dell’Accademia dei Filodrammatici, dell’Unhcr, della Croce Rossa, dell’ospedale Niguarda, uomini e donne delle istituzioni e delle associazioni, professioniste e professionisti che hanno voluto e saputo collaborare, perché alcuni migranti che sono in mezzo a noi possano vivere una vita più sana, più felice, più degna.
Davvero grande il lavoro di Tiziana Bergamaschi, la regista, e dell’équipe di drammaturghi, registi, attori e operatori sociali: in un laboratorio di 6 mesi, affiancato ai tradizionali percorsi di cura, hanno dato vita a uno spettacolo che ha saputo valorizzare le caratteristiche di ognuno, ed è riuscito con pochi mezzi, luci, qualche drappo di stoffa e qualche oggetto, a costruire la suggestione di paesaggi reali, esistenziali, mentali.
Frammenti di vita, di esperienze, di telefonate alla famiglia lontana, di ricerche estenuanti di luoghi, cose e persone di cui nulla si sa. Gesti e oggetti della vita passata e presente. Dialoghi in lingue che non si comprendono. Tutto si compone a poco a poco sotto gli occhi del pubblico nella faticosa ricerca di una vita vivibile e normale che vuole sfuggire all’annichilimento della violenza e dell’orrore attraverso cui si è passati.
Mi rimangono negli occhi le luminose palle colorate, un po’ identità e un po’ anima, che da un certo momento in poi ogni attore reca in mano, insegue, carezza e alla fine soffia verso il pubblico come in una muta, fiduciosa consegna di un sé ritrovato.
Patrizia Comitardi
Per maggiori informazioni sul progetto “I am – Je suis – Io sono, La restituzione dell’identità”, Teatro Utile 2019, vi consigliamo di leggere l’articolo di Gabriella Grasso pubblicato su QCode magazine “Il Teatro come terapia dell’anima”.