Io stravedo per mio fratello…

di Stefania Ragusa

Forse perché ci sono 13 anni a separarci, forse perché posso contare i giorni in cui lo vedo in un anno. Forse perché c’è così tanto odio là fuori e vorrei avvolgerlo con il mio amore per proteggerlo dal dolore.
Io stravedo per Mathys. Lo trovo bellissimo e mi fa ridere la faccia tosta con cui mi guarda negli occhi chiedendomi “sono bellissimo, vero?”. È un bambino intelligente, molto furbo e sensibile, tanto. E rispondere alle 24939289 domande che mi fa ogni giorno, anche a distanza, è a volte un po’ irritante.
Credo di avergli trasmesso il mio interesse un po’ ossessivo per l’Africa, non però – almeno per ora – quello per i libri. Ma lo considero un work in progress. Il suo libro preferito comunque è l’Atlante: lo legge e lo rilegge, impara le capitali e sceglie i posti dove deve portarlo sua sorella.
L’altro ieri mi ha consegnato una lista dei paesi in cui dovrei offrirgli le vacanze (è convinto che io sia molto ricca perché passo la maggior parte del mio tempo a leggere). Ci sono, tra quei paesi, la Spagna, il Belgio e il Regno Unito.
Gli ho detto che, oltre a non avere tutti i soldi che è convinto io abbia, ci sono dei problemi tecnici e burocratici per lo spostamento di due afrodiscendenti, una residente in Italia da quasi undici anni e l’altro (lui) nato in Italia nove anni fa, ma che non sono italiani e che hanno ridotti diritti alla mobilità. Ho cercato di non appesantire la sua storia da bambino nero mentre gli parlavo delle leggi sulla cittadinanza. Però si è messo a piangere dicendomi “Ma allora noi non possiamo andare dove vogliamo perché non siamo italiani?”.
Come sempre, quando piange per gli innesti di storia e politica nella sua coscienza infantile, l’ho abbracciato e gli ho detto che non deve piangere perché presto papà prenderà la cittadinanza e lui diventerà italiano e potrà andare dove vuole. Presto vuol dire magari tra dieci anni. Insomma sono proprio gli anni che servono a me per diventare cittadina italiana, lanciarmi in politica, diventare ministra dell’educazione e inserire 24 ore al giorno di storia del colonialismo italiano e del razzismo nei programmi educativi (hihihi).
A volte mi chiedo come farà questo bambino iper-sensibile ad affrontare il mondo e il razzismo. Una volta siamo andati con la mamma a Milano e abbiamo visto troppi senza tetto in troppo poco tempo. Sul momento mi ha fatto delle domande sul non avere una dimora fissa, un lavoro e del cibo tutti i giorni. Ho cercato di rispondere come sempre, e lui ha fatto altre mille domande prima di stancarsi. Alcune settimane dopo, l’ho trovato mentre piangeva da solo sul balcone. Quando gli ho chiesto il motivo di quelle lacrime ruscellanti (?!), mi ha detto “è che mi sono ricordato di quelli che abbiamo visto in stazione a Milano. Come fanno quando piove o nevica? Come fanno se sono malati? Eh Leati, come fanno?”.
Avrebbe potuto essere il motivo di un lungo monologo di storia sulle disuguaglianze, la povertà, il capitalismo, il razzismo. Però mi sono limitata ad abbracciarlo e a dirgli che sono situazioni estreme (anche se non isolate), che si deve ritenere fortunato ad avere quelle piccole cose e che se ci tiene davvero potrà, una volta cresciuto, investire il suo tempo nella cura dei più bisognosi.
Sono rimasta colpita da quella attenzione alla sofferenza altrui, da quella sensibilità infantile e genuina e dal fatto che ci avesse messo quelle settimane a metabolizzare. Non so cosa sarebbe accaduto se nessuno lo avesse visto piangere. Sono sicura che gli capita altre volte di essere solo quando piange, perché le sue lacrime le nasconde spesso.

E tutto questo mi fa paura. Mi fa estremamente paura, soprattutto quando i pensieri sul razzismo incrociano quelli su mio fratello e questo scontro di pensieri è così rumoroso da ingigantire le mie paure. Ecco, poi mi sento sola con queste paure perché mi sembra ci sia poca gente con cui condividerla, poche persone consce del peso che può avere il razzismo nella vita di un bambino afrodiscendente in questa Italia di questo esatto momento storico.
A volte nei vaporetti o nei treni mi sorprendo a guardare i bambini di varie origini e a vedere in loro Mathys, a chiedermi quali sofferenze possano serbare per varie ragioni (il bullismo, le famiglie distrutte, la povertà, i problemi di salute, la solitudine). E mi chiedo come si possa fare per aiutarli, per insegnar loro come tirare fuori le loro pene, anche se sono piccoli, per imparare a dire che e quanto stanno male. Perché è tutto così importante e perché se non si agisce subito, poi i traumi lasciano tracce e ci si abitua al dolore. E crescere così e diventare un adolescente o un adulto a pezzi è doloroso. Tanto. E lo so.
È difficile e doloroso spiegargli che il colore della sua pelle è uno dei motivi per cui non possiamo andare così facilmente a Londra. E poi è complicato spiegargli il razzismo, insegnargli a non rispondere con l’odio, convincerlo che anche se qualche bambino o adulto lo chiama “negro di merda” lui non si deve lasciar abbattere. Ma poi so che gli chiedo troppo, gli chiedo troppo quando gli faccio vedere “I am not your negro” di James Baldwin, gli chiedo troppo quando pretendo che legga un libro o due alla settimana e chiedo troppo quando per dormire gli leggo Fanon. È che nella mia esigenza in realtà si cela la mia paura che gli facciano male, che si faccia male. Perché ve lo garantisco, quando si è piccoli e soli, è facile, troppo facile farsi del male.
A volte mi fa paura avere questa dimensione delle cose e pensare che non sia così ovvia per altre persone. In alcune conferenze mi è capitato di incontrare anche dei maestri, con un’idea discutibile della multiculturalità e del modo in cui gestirla. E mi si è stretto il cuore pensando che potrebbero essere maestri di bambini come Mathys. Per ora io non posso fare molto, posso solo investire il mio tempo, a distanza per lo più delle volte, su Mathys e sulla sua educazione alla diversità, sulle strategie per sviluppare la sua coscienza.
Ecco io so che il tempo che investo su Mathys è un tempo che vorrei poter investire su tantissimi altri bambini che ho visto e continuo a vedere soffrire. Vorrei evitare loro tante esperienze traumatiche per cui siamo passati io e i miei coetanei. Per ora però ho un raggio d’azione limitato, ma è il mio punto di partenza. E non mi fermerò.
Per ora, posso limitarmi a pensare, parlare e a volte scrivere. Ma sono sempre alla ricerca di consigli di letture sulla psicologia e la pedagogia infantile e sul razzismo, strategie educative e tattiche per arginare la sensazione di negligenza affettiva. Se avete suggerimenti bibliografici per me, mi fate felice. Se avete consigli da genitori, scrittori, attivisti, maestri, o da fratelli e sorelle maggiori per me, mi fate solo felice e serena.

Leaticia Ouedraogo

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