Kenya, la Montagna di Dio

di AFRICA
Monte Kenya 8

Alla scoperta del Monte Kenya, la seconda vetta d’Africa. Un vulcano le cui ultime eruzioni, milioni di anni fa, hanno creato un paesaggio stupendo, colonizzato da curiosi animali e specie vegetali. Da esplorare prima che scompaia per sempre  

Barsaloi è un piccolo centro nel territorio di frontiera del Nord del Kenya. Il termine significa “posto dei leoni”, ed è vero, seppur siano le zanzare gli animali di gran lunga più pericolosi in questa savana semiarida. A fine anni Settanta del secolo scorso ci si arrivava da sud passando accanto a un cartello che ammoniva: “Da qui in avanti procedete a vostro rischio e pericolo”. Parlava di uomini, non di zanzare.

Di conseguenza, per spostarmi i dromedari da carico, assunsi due predoni come assistenti. «È più sicuro così», mi spiegò un residente. Infatti sono ancora vivo e in tutti questi anni ho camminato attraverso l’area in lungo e in largo, sotto la loro guida. Quello che li sconcertava era la mia mania di salire su qualsivoglia altura: occorreva fermare i dromedari, per poi attendere che io mi arrampicassi sui sassi. «Ma perché lo fai?», mi chiese un giorno Labria, il più loquace dei due. «Perché magari non c’è mai stato nessuno, lassù», risposi. «Ci sarà pure una ragione», fu il disgustato commento: la pietra tombale dell’escursionismo di montagna in Kenya. Piccato, feci notare che l’intero Paese prendeva nome da una montagna. «Cammina con le gambe, non con la lingua», e il proverbio concluse lo scambio.

Guarda come luccica

Labria parlava sempre per proverbi, sapendo che la cosa mi faceva schiumare di rabbia: li detesto. Così pensai di vendicarmi il giorno in cui, al centro di un cielo limpido come non mai, vedemmo svettare la piramide a doppia inclinazione del Monte Kenya, 200 chilometri più a sud. «Quella è la montagna di Dio. “L’occhio spacca le pietre”», fu il mio proverbio di rappresaglia. Labria parve colpito. Fece solecchio verso il fantasma ottico. «Però! Certo che voi bianchi siete forti: avete portato fin lassù la lamiera ondulata. Guarda come luccica!», esclamò. Malvagiamente, evitai di spiegargli cosa fosse il riflesso di un ghiacciaio africano al sole.

Il Monte Kenya è la seconda montagna d’Africa per altezza (5199 metri) dopo il Kilimangiaro (5895). Fu scalato nel 1899 da Halford John Mackinder (le precedenti salite degli abitanti locali non sono registrate). Si tratta di uno stratovulcano, la cui ultima attività eruttiva di accrescimento avvenne nel Pleistocene, circa tre milioni di anni fa, a causa della spaccatura tettonica del Grande Rift Africano.

Le sue eruzioni esplosive hanno sconvolto il paesaggio dei nostri antenati ominidi di tre milioni di anni fa, ai tempi in cui poche scimmie bipedi (gli australopitechi) si apprestavano a colonizzare la savana e, alla fine della migrazione delle prime forme evolute di Homo, il mondo intero. Come vedete, la nostra specie è dedita all’escursionismo a lungo raggio fin dai primordi, un meccanismo inarrestabile. Solo con il comportamento esplorativo si può spiegare la nostra volontà di “patire per raggiungere”.

Non è una passeggiata

Per salire sul Monte Kenya occorre essere allenati ed equipaggiati; disposti al quasi inevitabile mal di montagna; adatti al caldo e al freddo (l’escursione finale alla punta Lenana, 4985 metri, può durare anche una sola giornata, ma ricordate le parole del naturalista Olov Hedberg: «Qui ogni giorno è estate, e ogni notte inverno»); infine, siate al contempo resistenti e resilienti (se non ce la si fa). Soprattutto, come sempre in montagna, occorre saper farsi aiutare: le guide locali, pur se addobbate all’arlecchina con i resti consunti delle spedizioni precedenti, conoscono il mestiere come nessun altro. Vedo già le spallucce di chi ha scalato l’Himalaya, le Ande e le Alpi: «Che tecnica speciale vuoi che abbiano questi qua? È una passeggiata!». Già, ma da altre parti non si deve superare una fascia pedemontana in cui ci sono, tra scimmie, antilopi, bufali ed elefanti (senza citare nettarine e avvoltoi), anche iene, leopardi e qualche leone. Contro queste creature, attive al calar del buio, serve la prudenza dell’esperienza, e non l’ultimo grido in fatto di tessuti spaziali o bastoncini telescopici (e neppure le tecniche alpinistiche, se per quello: meglio un ricambio di mutande extra, subito dopo l’incontro ravvicinato con un leopardo). Fidatevi dunque di guide e portatori, come sempre si dovrebbe fare in montagna.

Ghiacciai scomparsi

Saranno loro a farvi notare quanto la montagna stessa stia mutando.

Come già riferito da Africa, i 16 ghiacciai registrati cento anni fa si stanno sciogliendo a causa del cambiamento climatico: temperature maggiori e piovosità ridotta. Ne restano sei, in diminuzione. I ghiacciai alimentano il fiume Tana che porta acqua alla diga Masinga, indispensabile per il semiarido Nord: la desertificazione è in atto. Tra il 1896 e il 1990, il maggior ghiacciaio del Kenya, il Lewis, aveva perso un metro di spessore alle quote più elevate e 7 in basso. Oggi è praticamente scomparso. Per i rimanenti, il naturalista keniota Benson Maina dà loro una trentina d’anni di sopravvivenza. «Fino a pochi anni fa – afferma – era impossibile arrivare in vetta al Monte Kenya senza i ramponi. Ora potrei arrampicarmi con le scarpe da safari. Ma voi non fatelo».

Una volta rotto il ghiaccio (battuta!), la scalata al Monte Kenya diventa un’ossessione. In onore di Giuàn Balletto e Felice Benuzzi (No Picnic on Mount Kenya), prigionieri di guerra evasi dal campo di internamento per piantare la bandiera italiana in cima al Kenya nel gennaio del 1943, un mio amico missionario, originario di Cuneo (un ex-internato), mi confidò di aver scalato decine di volte il vulcano. Quando lo vidi l’ultima volta, era afflitto dal cruccio di non poter raggiungerne i ghiacciai, un’ennesima volta, per ordine del medico. Eravamo tra i Samburu, e le nubi nascondevano “la casa di Dio”. «Mi sento quasi morto, adesso», disse.

Mondo fatato

Se non siete afflitti dall’Over-the-Top Syndrome (tipica malattia non-africana), godetevi il paesaggio che pare uscito da un libro di favole. Il Parco del Monte Kenya è suddiviso in tre zone ecologiche in funzione dell’altitudine. Alle basse quote, i versanti meridionali fungono da barriera delle piogge, intercettando l’aria umida. Qui sono concentrate vere e proprie foreste di bambù (Arudinaria alpina) e di conifere (Podocarpus latifolius), connesse da zone di cespugli bassi (genere Mimulopsis). Le tre specie coevolvono in modo caratteristico: tra l’altro, i bambù e i cespugli fioriscono e muoiono al contempo, con cicli rispettivamente di 40 e 13 anni. Il che apre la nicchia ad altre specie.

Salendo di quota si incontra la vegetazione alpina dell’area intermedia: le alte lobelie a forma di rosetta (Lobelia telekii, sulle pareti rocciose, e Lobelia keniensis, nelle valli umide), e i seneci giganti (Senecio keniodendron, che arriva ai 9 metri di altezza), così chiamati per i pappi che richiamano una chioma canuta. All’interno di questi ultimi, fa la tana una specie di topo (Mylomys dybowskii), mentre le lobelie sono pasto per gli iraci (Procavia johnstoni). Personalmente sono intrigato dal cranio di queste bestiole simili a marmotte: appare evidente come siano parenti dei dinoteri, elefanti preistorici con le zanne inferiori all’ingiù.

Più in alto, la vegetazione tende a rarefarsi come l’aria. Per i Maasai, il Kenya è Ol Donyo Keri, la “montagna a strisce bianconere”, forse per via dei nevai. Invece per i Kikuy, è Kere-Nyaga, “il risplendente” in lingua locale. Non certo per la lamiera ondulata. Ma perché lo considerano la casa di Dio.

(testo di Alberto Salza – foto di Martin Zwick / Visum / Luz)

 

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