Kenya | Sex work al tempo del Covid-19

di Stefania Ragusa

A fine luglio Amnesty International ha chiesto ufficialmente ai governi di tutto il mondo di attivarsi, in questo tempo modellato dal Covid-19, per immaginare e mettere in atto delle strategie protettive – sul piano della salute e dell’economia –  anche per le lavoratrici del sesso. In Africa la situazione sembra essere particolarmente critica. Non a caso The Global Network of Sex Work Projects (NSWP) ha lanciato ad aprile uno studio per capire come il Covid stia impattando sulla vita delle sex worker nel continente. Lo studio è in corso, i risultati ancora non ci sono. Ma si può già affermare con certezza che i governi hanno considerato altre priorità e solo poche, pochissime realtà associative si sono mosse per mitigare le difficoltà delle prostitute in questi mesi. Una di queste è la senegalese And Soppeku , che è attiva nelle città di Dakar, Thies e Kaolack. Altre sono operative in Sudafrica.

KESWA che è una sorta di associazione ombrello che riunisce le varie organizzazioni nate in Kenya in sostegno alle sex worker, ha recentemente lanciato l’allarme. La prostituzione è perseguita nel Paese ai sensi degli articoli 153 e 154 del codice penale. Ovviamente il divieto non ha mai pregiudicato il business e infatti il ministero della Salute stima che ci siano 133,674 sex worker di sesso femminile dichiarate. Si tratta ovviamente di figure poste ai livelli più bassi della piramide sociale, ma prima del Covid queste donne potevano lavorare e portare da mangiare a casa. Adesso la situzione è difficilissima e i rischi si sono decuplicati. La testimonianza di Nelly, giovane lavoratrice del sesso che esercita a Mombasa, può aiutarci a capire meglio.

Prima della pandemia, Nelly esercitava la sera. Intercettava i clienti per strada e li portava  in una guest house “dedicata” addebitando loro i costi di location. Ma dal 27 marzo, ossia da quando è in vigore il coprifuoco, con l’annessa chiusura dei bar, dei club e degli hotel abitualmente frequentati dalla sua clientela, non ha più potuto lavorare in modo regolare. Se vuole farlo deve violare il coprifuoco, con tutti i rischi che ciò implica, o puntare su un particolare tipo di clienti, i camionisti. Ha escluso di lavorare mediante app o di andare a casa del cliente perché queste modalità risultano troppo rischiose. Da quando è iniziato il lockdown le aggressioni alle prostitute sono infatti aumentate e avventurarsi fuori dalla propria zona è molto rischioso.
Prima del Covid Nelly aveva una media di 4-5 clienti al giorno. Oggi si considera fortunata se riesce ad averne un paio a settimana. Ha dovuto ridurre le sue tariffe e ogni volta rischia di ammalarsi. Non solo di coronavirus. I già scarsi servizi sanitari destinati alle prostitute sono saltati del tutto.

Diverse organizzazioni che fanno capo a KESWA, si sono impegnate nella distribuzione di mascherine e disinfettanti alle prostitute (oltre che di cibo e generi di prima necessità), ma non è abbastanza. Secondo Dorothy Agalla, direttrice della Kisumu Sex Workers Alliance (KISWA), l’incapacità del governo di proteggere le lavoratrici del sesso le ha costrette a pratiche più pericolose per guadagnarsi da vivere. Questo non è un problema che riguarda solo le prostitute e i loro clienti, come qualcuno potrebbe frettolosamente pensare.
Per combattere COVID-19, gli esperti hanno esortato le nazioni a non lasciare indietro nessuno. Dicono che non è un’iniziativa individuale, piuttosto un’impresa comune e collettiva. Chiunque sia lasciato indietro rappresenta una vera minaccia per qualsiasi progresso compiuto nella gestione della pandemia.

(Stefania Ragusa)

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