Il ritiro delle truppe statunitensi dal suolo afghano lo scorso 31 agosto, secondo Andrea Dessì, Responsabile del programma Politica estera dell’Italia all’Istituto Affari Internazionali (Iai), apre o rafforza interrogativi su quanto nel frattempo sta avvenendo in altri contesti caratterizzati da insicurezza e attentati, come il Sahel. L’instabilità di queste zone è sintomo di problematiche profonde che richiederebbero una visione d’insieme e interventi alternativi al solo impiego delle forze militari
Le immagini del generale Chris Donahue, ultimo militare statunitense a lasciare il suolo afghano lo scorso 31 agosto fanno già parte della storia di un impegno militare nato come risposta all’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 di cui in queste ore ricorre il ventesimo anniversario. Un intervento punitivo solo in un secondo tempo trasformato in un’operazione di Nation-building, di esportazione della democrazia, di tutela dei diritti delle donne, delle minoranze, sottolinea Andrea Dessì, Responsabile del programma Politica estera dell’Italia all’Istituto Affari Internazionali (Iai), in un’intervista a Oltremare, il magazine dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics). “Chiaramente – spiega Dessì – non si può esportare la democrazia con le armi e ancora meno ricostruire uno Stato-nazione attraverso l’uso della forza”. Detto in altri termini, il budget destinato alle forze di sicurezza è stato preponderante e non ha mai lasciato davvero il campo ad azioni efficaci di sostegno politico, economico e sociale che forse avrebbero potuto cambiare la conclusione di questa operazione in Afghanistan così come invece abbiamo visto.
Un esito che apre o rafforza interrogativi su quanto nel frattempo sta avvenendo in altri contesti caldi, come il Sahel. “In Sahel abbiamo assistito a un crescendo di instabilità e di insicurezza con diversi gruppi armati che operano in zone dove i governi centrali sono storicamente poco presenti” dice ancora Dessì a Oltremare. “Ma a ben vedere non si tratta soltanto di problematiche securitarie o di terrorismo. Questa è solo la punta dell’iceberg, l’insicurezza e gli attentati, come le migrazioni, sono sintomi di problematiche molto più profonde e per le quali non esistono soluzioni puramente militari. Ci sono questioni di credibilità e legittimità dei governi, ci sono gli effetti dei cambiamenti climatici e c’è la crisi economica”. Secondo il ricercatore dello Iai, l’idea di sistemare le cose sostenendo semplicemente le locali forze di sicurezza è una strada che conduce agli stessi errori commessi in Afghanistan: “Se vengono meno l’elemento sociale, politico ed economico si ha un approccio destinato a fallire, foriero di problemi ancora più rilevanti e incapace di affrontare quelle questioni profonde su cui i gruppi jihadisti fanno perno”. Semplificando si può dire che il terrorismo non si batte con i droni.
In realtà questa consapevolezza in Occidente c’è, ma gli strumenti necessari per seguire strade alternative agli interventi militari, o anche integrative di questi, richiedono una unità internazionale molto difficile da raggiungere e hanno bisogno di tempi diversi e di una visione di lungo termine che può non combinarsi con le pressioni esercitate dalla politica interna dei singoli Stati, chiamati a confrontarsi con problematiche nate a migliaia di chilometri di distanza (come i flussi migratori). In altre parole, secondo Dessì, è politicamente più facile reagire ad una crisi in atto che dedicare risorse per prevenire una crisi che tutti sanno presto esploderà. Un intervento militare, anche umanitario, è più semplice da mettere in campo ma non è risolutivo. Anzi può determinare questioni ancora più gravi nel medio e lungo periodo. Un intervento di più ampio respiro, forgiato a livello internazionale, teso a una ricostruzione politica, sociale ed economica può mettere in moto un processo positivo, ma ha tempi, costi e modalità molto più complessi e non vi è nessuna certezza di successo.
(Maria Scaffidi)