Sessant’anni fa iniziavano i lavori di costruzione della più imponente diga mai realizzata in Africa. Lo sbarramento sul fiume Zambesi ebbe l’effetto di inondare un vasto territorio popolato dalla fauna selvatica e dal popolo tonga. Creando un lago sorprendente
Negli anni Cinquanta la Rhodesia descritta da Kipling è ancora il Paese dei «grandi spazi inondati di sole», dove i cacciatori-raccoglitori avevano lasciato numerose pitture rupestri ben prima dell’arrivo dei Bantu e dove, nel 1854, il missionario scozzese Robert Moffat aveva aperto la via agli esploratori dell’impero britannico che portarono Bibbia, caccia grossa e colonie di pionieri. Nel 1890 arrivò Cecil John Rhodes, che aveva ottenuto i diritti di estrazione mineraria dal re Lobengula.
Sessant’anni più tardi, la Rhodesia del Sud (poi Rhodesia e oggi Zimbabwe), sviluppatasi fino a divenire il “paniere” dell’Africa australe grazie ai minerali e alle grandi fattorie degli altipiani favorite da un clima ideale, ha bisogno di energia – necessaria anche per le miniere di rame della Rhodesia del Nord (oggi Zambia), fino a quel momento alimentate a carbone – e costruisce la diga di Kariba, creando il più grande lago artificiale al mondo, lungo 280 chilometri per una superficie di 5.500 chilometri quadrati, che da essa prende il nome. Sono gli italiani a portarvi il loro know-how tecnologico erigendo l’immenso arco a doppia curvatura (definito una delle meraviglie ingegneristiche del mondo) alto 128 metri e lungo 579, che sbarra il flusso dello Zambesi, il quarto fiume dell’Africa, e genera per Zambia e Zimbabwe oltre 1.800 Megawatt di potenza con 10 generatori elettrici posti in due stazioni idroelettriche sotterranee.
Operazione Noè
Il progetto prende avvio nel 1956. Per salvare gli animali dalla crescente inondazione delle valli si realizza l’imponente “Operazione Noè”: vengono catturati oltre 5.000 animali, dai rettili ai pachidermi, e ricollocati tra le colline di Matusadona (“sterco che cade” nell’idioma locale). Le stesse valli erano abitate fino a quel momento anche dalla tribù dei Tonga, la cui divinità Nyaminyami, lo Spirito del Fiume, sarebbe ancora adirata per la forzata trasferta di 57.000 persone in zone aride e inospitali: a seguito di uno sradicamento repentino, senza adeguata compensazione, le comunità si ritrovano infatti divise, su opposte rive del lago e in due nazioni diverse.
Tutt’oggi i Tonga vivono di agricoltura di sussistenza da quando la caccia è stata vietata per istituire i parchi (tranne che in alcune aree di prelievo controllato attraverso quote annuali) e il trasferimento forzato di questo popolo, strappato dalle terre ancestrali e costretto ad abbandonare le proprie tradizioni, è una ferita che non si è ancora cicatrizzata.
Effetti collaterali
La diga di Kariba viene costruita senza valutazione di impatto ambientale (non ancora in auge all’epoca), impatto che si sarebbe manifestato sugli ecosistemi a valle nell’arco del tempo: la forte diminuzione del flusso del fiume e dei sedimenti da esso portati ha ridotto l’ampiezza del delta, in Mozambico, un tempo popolato da enormi branchi di bufali, riducendo anche le foreste di mangrovie. Sul versante zambiano, l’agricoltura a valle della diga contava proprio sui ricchi depositi di limo rilasciati dalla piena annuale. Il flusso del fiume, inoltre, avrebbe dovuto essere regolato attraverso la diga in modo da rispettare il più possibile i suoi ritmi naturali: tra dicembre e giugno lo Zambesi porta a valle l’acqua pluviale raccolta dagli affluenti e la mancanza delle variazioni stagionali di piena ha stravolto la sequenza dei comportamenti alimentari e riproduttivi di molte specie ittiche, causandone il calo. I pescatori più anziani, che dalle loro canoe di tronchi scavati utilizzavano reti di corda e fibra di agave (sisal), oppure veleni di origine vegetale, testimoniano di un’abbondanza perduta. Conseguenze simili, incluso il trasferimento forzato di centinaia di villaggi, si verificano con la costruzione della diga di Cahora Bassa sullo Zambesi a opera del Mozambico negli anni Sessanta.
Allarme sicurezza
Dopo mezzo secolo, la Zambezi River Authority (Zra) che gestisce la diga di Kariba si appresta ad avviare lunghi lavori di riabilitazione per garantirne la sicurezza: già, perché la mastodontica opera si trova anche in zona sismica, posta com’è all’estremità meridionale del sistema di fosse tettoniche della Rift Valley africana, e nel 2015 è stato lanciato un ulteriore allarme circa la debolezza delle sue fondamenta, anche a causa della progressiva erosione del letto di basalto su cui poggia, dove si è formato un cratere che la destabilizza dal basso. La siccità in corso in Africa australe ha abbassato il livello del serbatoio al 12 per cento della sua capacità, e ciò rappresenta un ulteriore problema, perché le mura ad arco della diga oggi non sono sostenute dal bacino idrico stesso, e quindi rischiano di crollare: i cambiamenti climatici in atto, con siccità seguite da inondazioni eccezionali, potrebbero rappresentare l’elemento scatenante di un disastro annunciato.
Il 9 gennaio scorso il ministro dell’Energia dello Zimbabwe ha definito le condizioni della diga «disastrose». Il crollo di Kariba causerebbe una catastrofe imponderabile, uno tsunami pauroso che si abbatterebbe su tre milioni e mezzo di persone: soprattutto in Mozambico e Malawi. E anche se il cedimento fosse parziale, le ripercussioni della fine della fornitura energetica della diga (che oggi garantisce il 40 per cento del fabbisogno regionale) sarebbero gravissime sull’economia di tutti i Paesi dell’Africa australe.
testo di Silvana Olivo – foto di Bruno Zanzottera