Le coste di Ghana e Benin sono disseminate di luoghi che evocano i terribili ricordi del commercio negriero. Fortezze, musei e monumenti affiorano sulle spiagge orlate di palme. Dove paiono aggirarsi i fantasmi della storia. Viaggio nel Golfo di Guinea sulle orme della tratta
di Marco Aime
Nel Sud del Benin, dove la laguna di Porto-Novo si getta nel mare, parte una lunga spiaggia che corre lungo il golfo. Il sapore esotico delle palme che si affacciano sull’oceano sembra essere riportato a più terreni discorsi dal viso cupo delle onde atlantiche. Più che villaggi sono case isolate quelle che si susseguono lungo la costa. Costa d’Oro, Costa degli Schiavi, questo lungo arco che si affaccia sulle grigie e turbolente onde dell’Oceano Atlantico, e che va dalla Nigeria alla Costa d’Avorio, ha cambiato spesso nome nel tempo. Nomi dati da altri, dagli europei in cerca di ricchezze, che fossero il prezioso minerale o fossero braccia umane. La storia degli ultimi secoli di questa regione è profondamente legata alle vicende degli importanti regni locali, come quello del Dahomey, dell’Ashanti, di Allada, che si sono espansi e arricchiti proprio grazie alla tratta degli schiavi. La costa è segnata da palazzi e forti legati alla tratta. Queste erano le spiagge da cui iniziava l’ultimo viaggio degli schiavi, catturati e deportati nelle Americhe. Gorée, Ouidah, Porto-Novo, Elmina, nomi tristemente legati a questa tragedia che ha dissanguato l’Africa.
«Non so se caffè e zucchero siano essenziali alla felicità dell’Europa, so però bene che questi due prodotti hanno avuto molta importanza per l’infelicità di due grandi regioni del mondo: l’America fu spopolata in modo da avere terra libera per piantarli; l’Africa fu spopolata per avere braccia necessarie alla loro coltivazione», scriveva Bernardin de Saint-Pierre, scrittore e viaggiatore francese del Settecento. Una tragedia che vide tra i 12 e i 15 milioni di giovani e donne africani strappati alle loro case per essere imbarcati su nave negriere.
Forti e castelli
Il commercio dei negrieri seguiva strade diverse. La tratta portoghese e spagnola collegava il Golfo di Guinea e l’Angola, ma anche il Mozambico, al Brasile e alle Antille. Inglesi, olandesi e francesi preferivano invece andare a vendere oggetti di poco valore in Africa in cambio di schiavi da destinare alle piantagioni di cotone, zucchero, tabacco e caffè delle West Indies e dei futuri Stati Uniti.
Una volta selezionati, gli schiavi venivano riuniti in appositi centri di smistamento, per poi essere imbarcati sulle navi negriere. Una delle più antiche (e meglio conservate) strutture di questo tipo è il castello di Saint George, costruito nel 1482 dai portoghesi, situato nella città portuale di Elmina, in Ghana, 180 chilometri a ovest della capitale Accra. Il grande cortile centrale, gli alloggi dei negrieri, le lugubri stanze invase dalla muffa in cui venivano tenuti gli schiavi, fanno di questo posto un museo permanente degli orrori dell’umanità. Sulla costa ghanese, tra le città di Keta e Beyin, si trovano altre strutture simili. A Cape Coast, si sussegue una serie di edifici che ricorda quella tragica epoca storica, come Fort Victoria, Fort William e Fort MacCarthy. L’imponente Cape Coast Castle, a due passi dal mare, ospita un museo che raccoglie oggetti, immagini e reperti della schiavitù in Ghana.
La memoria perduta
A Ouidah, in Benin, le testimonianze della tratta si inseguono nel museo allestito all’interno del forte portoghese. La signora che guida la visita va di fretta. Ripete spiegazioni imparate a memoria, senza mai cambiare tono di voce. Come uno scolaretto che recita la poesia per accontentare la maestra. Niente a che vedere con l’enfatica retorica apocalittica e accusatoria del cicerone senegalese di Gorée, che parlava dall’alto della sinuosa scala rosa, puntando il dito contro i turisti e facendoli sentire in colpa, per la tratta degli schiavi, in nome di tutta la razza bianca.
Nel museo qualche oggetto, pochi: monete, massicce catene di ferro ormai arrugginito, cannoni e altre armi per mantenere l’ordine, e copie di stampe antiche, di carte geografiche d’epoca. Immagini di re con le loro corti fastose, nani, amazzoni e ospiti bianchi, seduti sempre in un angolo con i loro abiti migliori, che sembrano guardare con distacco quei loro alleati, buoni per la manovalanza, da disprezzare per il resto.
“Museo della schiavitù” si chiama, ma ogni cosa sembra fare riferimento ai re e alle loro corti. Museo dello schiavismo, dovrebbe chiamarsi. Poche immagini riportano il dolore degli schiavi. Solo alcuni disegni di uomini incatenati e terrorizzati. Nulla viene detto sulle cause, tutto viene raccontato con distacco, come se non avesse potuto essere altrimenti.
Il nazionalismo ha prevalso su ogni riflessione storica e morale. I regni del Sud e i villaggi del Nord, i predatori e i predati fanno oggi parte dello stesso Paese, ma diffidano l’uno dell’altro. A Sud dicono che quelli del Nord sono arretrati; la gente del Nord diffida dei connazionali del golfo.
Quasi nessun riferimento al ruolo dei sovrani africani in questo infame commercio. Eppure erano proprio i regni costieri a organizzare le spedizioni di cattura. Solo alcune righe su un pannello accennano al fatto che alcuni re africani “si sono arricchiti” con questo traffico. La storia è sempre e ovunque fatta tanto di memoria quanto di oblio.
La porta del “non ritorno”
Una pista polverosa, battezzata route des esclaves, lascia la cittadina per scendere verso il mare. È una pista sconnessa, scassata dai camion sfiatati e gonfi di sabbia che la percorrono su e giù.
Hanno messo delle statue lungo la strada. Statue dipinte di verde, raffiguranti divinità vodu, simboli regali, ricordi della tratta. Una targa indica l’albero dell’oblio, attorno al quale gli schiavi dovevano compiere diversi giri per dimenticare la loro terra natale. Un’altra targa indica il sito dove venivano accantonati gli schiavi prima di essere imbarcati. Una statua raffigura la posizione in cui venivano legati perché non reagissero. Accovacciati, le ginocchia piegate, le braccia immobilizzate. Erano le tappe di un tragico percorso iniziato nei villaggi del Nord, dove gli schiavi venivano catturati, per finire, dopo un viaggio da incubo su navi puzzolenti di feci e vomito, in qualche angolo sperduto delle Americhe. Da poco è stato eretto un cippo del pentimento, con un’epigrafe che invita tutti i béninois a riflettere. Unico accenno di autocritica in questa nebbia che sembra ottundere il ricordo di una delle peggiori espressioni della crudeltà umana.
La pista beccheggia, sbanda e ondeggia sotto le ruote degli zémidjan, i motorini che in tutto il Benin fungono da taxi e che trasportano due persone alla volta, oltre al conduttore. Attraversa l’acquitrino, poi sale leggermente per raggiungere un ponticello sulla laguna. Sotto, alcuni ragazzi, immersi nell’acqua fino ai fianchi, raccolgono i pesci dalle nasse. La pista sbuca sulla spiaggia. Il vento solleva la sabbia rosa e rende l’atmosfera vellutata. Come se si uscisse per qualche istante dalla realtà del momento. In fondo, sull’azzurro sbiadito del cielo, spicca l’arco rosso della Porta del Non Ritorno.
Realismo socialista e stilizzazione africana si fondono nei bassorilievi apposti a memoria di quei milioni di uomini e donne strappati alla loro terra e deportati. In alto, sull’arco, due lunghe file di incatenati si avviano tristemente verso le onde arroganti dell’oceano. Sull’altra facciata gli schiavi sono visti di fronte. Hanno gli occhi sbarrati, impauriti. Di quella paura che li spingeva a gettarsi in acqua, incatenati dalle scialuppe, prima di raggiungere le navi che attendevano al largo. Guardando quei volti sembra di sentire grida, pianti, sferragliare di catene e colpi di frusta. Invece lo scatarramento tossico dei motorini e il gemito forzato dei camion sono gli unici rumori che riescono a infilarsi tra le dita del vento.
Acque irrequiete
Un venditore di souvenir si è addormentato sotto le statue dell’arco. Le sue calebasses decorate, appese a uno spago, ondeggiano leggermente al vento. Il venditore sente le voci di alcuni turisti, apre gli occhi, li guarda. Non sembrano intenzionati a comprare e si rimette a dormire.
Poco più in là è sorto un ristorante, Le jardin du Brésil, rosso mattone come l’arco. Quasi ti viene da voltare la testa verso il mare. Là, dove il piombo delle onde sfiora il grigio sfumato delle nuvole. Laggiù c’è il Brasile. Laggiù finiva il viaggio degli schiavi.
Per qualcuno invece iniziava la strada del ritorno. Sono parecchi i béninois che portano cognomi come De Souza, Da Silva, Monteiro, di chiara origine brasiliana. Sono ex schiavi, affrancati in qualche modo e ritornati in patria. Figli della risacca che li ha riportati su queste sponde, spesso per fare a loro volte fortuna con la tratta degli schiavi. Quante volte abbiamo visto la stessa triste storia!
E se un tempo da queste coste partivano le navi cariche di schiavi, razziati nell’interno dalle bande dei regni costieri, oggi i fattori sono cambiati, ma il Golfo di Guinea continua a essere teatro di razzie.
Da gennaio a giugno 2018 si sono registrati ben 34 attacchi pirata nigeriani nei confronti di navi mercantili e da pesca nel Golfo di Guinea. Questi attacchi hanno portato al rapimento di 35 marinai per il riscatto e il dirottamento di diverse navi. È la cosiddetta “petro-pirateria”, che vive sul sequestro di petroliere e che ha visto moltiplicarsi gli attacchi anche nelle acque del Benin e del Ghana (Africa 4/2019).
Una storia lunga, tormentata e complessa, quella di questa lunga spiaggia africana, che ha visto incrociarsi migliaia di destini di gente diversa e che ancora oggi continua a essere un punto di riferimento, nel bene o nel male, per gran parte del continente e non solo.
(Marco Aime)
Questo articolo è uscito sul numero 4/2020. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.