La crisi del grano fa salire le tensioni in Africa

di Marco Trovato

“Quando due elefanti lottano è l’erba che soffre” ammonisce un proverbio africano: saggezza popolare che trova l’ennesima conferma in ciò che sta avvenendo in queste settimane al di là del Mediteranno. Gli effetti della crisi in Ucraina si stanno facendo sentire pesantemente in Africa, dove decine di milioni di poveri tornano a convivere con l’incubo di una carestia. La guerra ha fatto balzare il prezzo del grano – di cui Mosca e Kiev assicurano un terzo delle esportazioni mondiali –, che ha sfondato ogni record (sopra i 500 euro a tonnellata). I contraccolpi sono pesanti: l’anno scorso i Paesi subsahariani hanno importato cereali e beni alimentari dalla Russia per 4 miliardi di dollari e dall’Ucraina per 3 miliardi.

La situazione è particolarmente delicata in Nord Africa, la regione che più dipende dalle importazioni di cereali e che già in passato ha vissuto sommosse (e sanguinose repressioni) innescate dal prezzo del pane. Osservato speciale è l’Egitto, primo importatore al mondo di grano (il 50% del suo fabbisogno proviene dalla Russia, il 30% dall’Ucraina). Le autorità del Cairo investono 3 miliardi di dollari per calmierare il prezzo del pane (la metà del totale dei sussidi alimentari), ma l’aumento del costo del grano rende insostenibile ulteriori sforzi di spesa pubblica. Per correre ai ripari si è già provveduto a ridurre il peso del pane sussidiato (per diminuire la quantità di grano utilizzata), misura non risolutiva che peraltro provoca malumori e tensioni. Non se la passa bene nemmeno la Libia, che importa circa il 90% del suo fabbisogno in cereali (metà dall’Ucraina fino allo scorso anno): fra Tripoli e Bengasi il tasso di insicurezza alimentare ha raggiunto livelli allarmanti, colpendo oltre un terzo della popolazione, da oltre dieci anni costretta a convivere con una forte instabilità. In Tunisia l’aumento di prezzo del grano si innesta su una transizione politica e una congiuntura economica estremamente delicate. Anche qui il pane è calmierato, ma il deficit pubblico sta raggiungendo una soglia critica e presto l’Fmi potrebbe imporre a Tunisi dolorosi sacrifici per rientrare dai prestiti internazionali.

A sud del Sahara la situazione non è migliore. Certo, il boom dei prezzi delle commodities sta favorendo nazioni esportatrici di idrocarburi (come Nigeria, Algeria e Angola), ma le difficoltà di approvvigionamento – unite al boom dei costi delle spedizioni e alle speculazioni internazionali – stanno causando un aumento vorticoso dei prezzi al consumo in un’area geografica in cui il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Secondo uno studio della Banca africana di sviluppo (Afdb) pubblicato a fine maggio, il continente africano perderà fino a 11 miliardi di dollari di cibo a causa del conflitto in Europa occidentale. “Il prezzo del grano – avvertono gli analisti – è già salito di circa il 60% e anche il mais e altri cereali saranno interessati”. L’olio di semi in molti Paesi sta diventando un bene prezioso come pure i fertilizzanti (di cui la Russia e la vicina Bielorussia esportano oltre il 20% mondiale) che rischiano di mettere in crisi le produzioni agricole di Costa d’Avorio e Sudafrica.

Il virus dell’inflazione dilaga un po’ dappertutto. Una decina di nazioni già oggi registrano aumenti dei tassi a due cifre: guidano la non invidiabile classifica Angola, Nigeria, Malawi, Zambia, Ghana e Zimbabwe, Etiopia e Sudan (gli ultimi due, già fortemente indeboliti da crisi politico-militari interne). Entro fine anno 41 Paesi africani su 54 vedranno le proprie valute e il potere d’acquisto deprezzati a causa di una dinamica inflattiva che penalizzerà la ripresa di economie fragili e già sfibrate dalla pandemia. Ma la congiuntura sfavorevole potrebbe anche accelerare le riforme auspicate da tempo, spingendo i leader africani a imboccare con decisione la strada di uno sviluppo più inclusivo, stabile, sostenibile.

Condividi

Altre letture correlate: