L’African National Congress, partito al potere in Sudafrica dal 1994, sta affrontando una profonda crisi economica, politica e securitaria. Il Paese presenta paurosi tassi di criminalità frutto di deficit educativi e di una profonda disuguaglianza economica di cui la politica è responsabile. I conclamati scandali di corruzione del partito-stato non hanno fatto altro che esasperare le tensioni sociali infuocando le rivolte e le mobilitazioni. C’è aria di cambiamento e in un anno di elezioni per il partito che fu di Nelson Mandela il futuro è incerto.
di Daniele Molteni
Il Sudafrica è il terzo paese più pericoloso al mondo, dopo Venezuela e Papua Nuova Guinea e prima dell’Afghanistan. Secondo Cristiana Fiamingo, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa dell’Università degli studi di Milano e ricercatrice esperta di Africa australe, sono due le principali cause di questo fenomeno: una inefficace politica del lavoro e una inadeguata politica educativa che hanno accompagnato la Rainbow Nation sin dalla sua istituzione post-apartheid. «Le riforme educative sono un nodo cruciale. Non basta imitare le esperienze – sia pure le più efficaci – degli altri Paesi. Ogni riforma educativa rappresenta l’immaginario che ha la governance nazionale circa la società futura».
In Sudafrica, racconta la Fiamingo, sono stati introdotti curricula mutuati da diversi paesi del Commonwealth, senza tener conto di un contesto in cui il 63% dei bambini soffre di grave povertà, il 78% non sa comprendere appieno cosa legga, mentre il tasso di disoccupazione continua ad essere su livelli alti: secondo la Quarterly Labour Force Survey (QLFS) nel primo trimestre del 2022 era del 63,9% per la fascia d’età 15-24 anni e del 42,1% per l’età compresa tra 25 e 34 anni mentre la media generale si attesta al 34,5% . Passi importanti sono stati compiuti nel senso della de-razzializzazione degli istituti scolastici pubblici e della diffusione delle scuole sul territorio nazionale ma la qualità è rimasta pessima. La pandemia, con la didattica a distanza, è andata ad acuire le disparità nelle ex-township che si sono espanse dalla fine dell’apartheid in quartieri informali, dove dal 2007 si assiste quotidianamente a blackout regolamentati per zona per affrontare la crisi energetica.
Nel Paese più diseguale al mondo, oltre alla disoccupazione, il divario tra ricco e povero è in continuo aumento: da un’apartheid etnico a uno economico. Una situazione la cui responsabilità non può che imputarsi anche all’African National Congress, al potere da quasi quarant’anni, che ha disatteso le aspettative sudafricane. «Ancorché il neoliberismo non fosse tra le principali opzioni del suo immaginario politico, è innegabile che sin dalla presidenza Mandela (1994-1999), l’ambiguità della posizione dell’ANC abbia spiazzato i più», sostiene Fiamingo. «Nonostante il dettato della Costituzione sudafricana del 1996 stabilisse il diritto a un equo accesso alla terra, ad oggi, soltanto il 12% dei terreni agricoli è stato ridistribuito, rispetto all’obiettivo del 30% che l’ANC si era dato nei suoi primi cinque anni di governo». Una prima fase in cui a fianco della politica legislativa di land tenure si sono percorse due vie: quella restitutiva e quella ridistributiva. Approcci co-sustanziali al programma di riconciliazione nazionale e al necessario ripristino di una giustizia sociale. Vie che hanno prodotto riforme rivelatesi occasioni perse per il Sudafrica post-apartheid di elevare lo status delle masse povere.
«Dall’esilio cui fu costretto, l’ANC resisteva attraverso le reti internazionali che potenzieranno il primo movimento di protesta globale contro un crimine contro l’umanità, come è stato definito l’apartheid», racconta Fiamingo. Una storia da onorare, purtroppo però lontana da quello che è oggi l’ANC: un soggetto trasformato, in preda, soprattutto durante il quasi decennio di presidenza di Jacob Zuma, a continui scandali di corruzione. Tanto che nel 2018 si è creata una commissione, la “Zondo Commission”, proprio per indagare sul sistema corruttivo del paese retto soprattutto dall’ex presidente. «La questione che, su tutte, ha definito il mandato di Zuma è il discutibile accesso a rapporti finanziari privilegiati garantito alla famiglia di imprenditori indiani immigrati, i Gupta, attraverso le entrature dell’ANC, nell’interfacciarsi con le istituzioni statali, in un evidente nesso di “state capture”». Una corruzione politica sistemica che ancora permea la società e la tiene ostaggio di élite politiche e imprenditoriali.
Come si legge in un rapporto dell’Institute for Security Studies, esiste una correlazione tra le rivolte scoppiate a seguito della caduta di Zuma e gli eventi politici all’interno del partito-stato. Per quanto riguarda le agitazioni sociali, queste riflettono giochi di potere tra élite, impegnate a contendersi la base politica e il controllo del paese in un’opportunistica strumentalizzazione della componente “dal basso”. «Gli effetti della globalizzazione economica stanno colpendo tutti i continenti e, come noto, il neoliberismo ha allargato la forbice sociale», spiega ancora la professoressa Fiamingo. «L’elevazione esorbitante dei prezzi di generi di prima necessità non poteva non provocare esasperazione, per non dire della competizione per la risorsa più rara in assoluto, in questo momento: il lavoro». L’aprirsi di uno spazio politico nel caos va quindi a coinvolgere movimenti populisti e anti-migranti, che sempre più emergono nelle cronache locali come forze antisistema dai tratti xenofobi. Quanto al primo partito, le elezioni municipali dello scorso novembre sono state una debacle per un ANC arrancato al 50% dei voti a vantaggio della Democratic Alliance (DA) e degli Economic Freedom Fighters (EFF) di Julius Malema, che in alcuni distretti urbani hanno convogliato i loro voti sul candidato DA.
Elementi, questi, che sempre Fiamingo considera un segno di grande consapevolezza politica e di forte determinazione a chiudere con l’idea stessa di party-State. «Non sembrano esserci le forze per una rivoluzione interna al partito. Un tempo ormai lontano era la Youth League a segnare il passo dei cambiamenti necessari, la culla della forza rigeneratrice del movimento. Julius Malema, l’attuale leader degli EFF, in realtà è stata la mina che ne ha determinato la deriva violenta e la fine, ma ora potrebbe giocare le buone carte che questa terribile congiuntura gli offre».
Il vento del cambiamento sembra possa soffiare solo dall’esterno: in meglio o in peggio resta un’incognita. Entro la fine del 2022 l’African National Congress eleggerà la nuova leadership provinciale e nazionale. Cyril Ramaphosa, un tempo delfino di Mandela e attuale presidente, sta cercando di gestire le controversie interne al partito ricostruendo le istituzioni indebolite da Zuma, ma non sembra avere il potere e la credibilità necessarie. «È lecito aspettarsi ulteriori, immancabili proteste che non potranno che determinare pesanti conseguenze elettorali, sempreché il Governo resista fino al novembre 2024. Il recente, ulteriore scoperchiamento di quella pentola lasciata a sobbollire, del diretto coinvolgimento di Ramaphosa, quand’era CEO della Lonmin, nel massacro di 34 minatori che protestavano per i salari irrisori alle miniere di Marikana del 2012, aggiunge altra benzina al fuoco», conclude Fiamingo.
Foto di apertura: bambini sudafricani accanto a un ritratto della defunta attivista sudafricana contro l’apartheid Winnie Madikizela-Mandela, ex moglie del leader dell’African National Congress (ANC) Nelson Mandela, in una visita scolastica nella sua casa il 3 aprile 2018 a Soweto. (Marco Longari / Afp)