Un antropologo s’interroga sull’impatto e sull’efficacia del “governo del popolo” nel continente. Prima del colonialismo e degli stati moderni, gli africani amministravano il potere con sistemi endogeni. Più o meno efficaci, equanimi o autoritari. Gli europei hanno imposto una “democrazia” fatta di libere elezioni, partiti, parlamenti. Le cose sono andate diversamente dai piani
di Alberto Salza
La democrazia è una forma di linguaggio: se non lo si conosce, richiede la traduzione, altrimenti non si capisce niente e si finisce come quel sergente delle forze speciali Usa che in Ogadèn, al confine tra Etiopia e Somalia, mi disse: «Credevo di essere qui per esportare la democrazia, non di farne parte». E aveva ragione, soprattutto per quel che riguarda la democrazia in Africa: la prova della democrazia non è se il popolo vota, costi quel che costi, ma se il popolo governa.
Non è che ad Atene…
A dimostrazione di quanto conti il linguaggio della democrazia, la parola “governo” è ambigua: deriva dalla radice latina di “timone”. Chi governa, tiene la barra. Chi gli dà la rotta? Chi comanda la nave? Vi fidereste di qualcuno che vi dica «lasciatemi timonare»? Sa dove sta andando? I Luluwa del Congo e i Mossi del Burkina Faso, a dimostrazione di come esista una base di pensiero comune in Africa (spesso negata dagli opinionisti del relativismo), dicono: «Al capo ci vogliono uomini, agli uomini ci vuole un capo». La democrazia è una forma di potere, non un pio desiderio di condivisione, pertanto non sfugge a questa legge.
Fino alla colonizzazione, le forme di potere nell’Africa subsahariana hanno seguito, storicamente e geograficamente, l’andamento della densità di popolazione. La banda di Boscimani che mi accolse nel Kalahari viveva in un territorio con meno di un abitante per chilometro quadrato; la comunità di cacciatori-raccoglitori era acefala, le decisioni venivano prese dai nuclei famigliari e, se qualcuno non era d’accordo, se ne andava da un’altra parte.
La diffusione dell’agricoltura, incrementata tramite la tecnologia del ferro dalle popolazioni di lingua bantu a partire dal Camerun, si basò dapprima su piccoli nuclei densi di popolazione in mezzo a foreste e savane disboscate, guidati da una persona autorevole. In seguito, il sistema di potere si allargò in una rete di chefferies (capitanati), centri di pari densità ed estensione territoriale, funzione del culto degli antenati. Questi dominii erano caratterizzati dall’ineguaglianza, con il potere centrale più o meno ripartito tra le classi sociali. Nulla di simile alla democrazia; occorre però ricordare che la democrazia ateniese coinvolgeva solamente il 10% della popolazione: i padroni terrieri, maschi.
L’autorevolezza degli anziani
Nei territori favorevoli come la regione dei Grandi Laghi, la storia africana vede successivamente la formazione di regni e imperi con l’aumento di popolazione e la fusione dei dominii. Le parole “regno” e “impero” sono assonanze dell’equivalente indoeuropeo, ma sono riconoscibili per la loro guida monocratica, pur se compensata da meccanismi regolatori come i consigli degli anziani (etimologia di “senato”) o le intricate regolazioni che interferivano con la discendenza patrilineare. Per esempio, in Africa meridionale lo zio materno esercitava grande influenza sul re e le sue decisioni. Inoltre, il re era una sorta di amministratore delegato che ridistribuiva le ricchezze come dividendi agli azionisti (i sudditi), a dimostrazione che in Africa quel che conta è la comunità, non l’individuo (sulla tipologia e permanenza dei regni, vedi “Vostra altezza sorrida”, Africa, 5/2015).
I pastori fanno storia a sé. Dovevano (e devono ancora) spostarsi in cerca di risorse sparse (erba e acqua), imprevedibili e di bassa resa. Il conseguente nomadismo a largo raggio non può reggere una forma di potere centralizzata: le decisioni vanno prese sul posto e nel momento in cui le variabilità atmosferiche e vegetali lo impongono. Di conseguenza, i pastori si dotarono di forme di “governo” apparentemente democratiche. In realtà si tratta di una gerontocrazia dove vince il “si è sempre fatto così” e l’innovazione non ha vita. Qui si governa con l’autorità (meglio: l’autorevolezza) e non con il potere: gli anziani hanno la maledizione come unico istituto giuridico per costringere i giovani a seguire le loro decisioni.
Il potere della parola
Ho partecipato a centinaia di assemblee tra i pastori di Kenya, Etiopia e Somalia. È un’esperienza demenziale. Chiunque, tra gli uomini adulti, può prendere la parola e perorare una qualsivoglia causa. In genere si tratta di cose serie, per cui tutti devono contribuire al dibattito con la retorica appropriata. Talvolta si tratta di un centinaio di anziani, assai verbosi per imperativo culturale. Il guaio, democraticamente parlando, è che non si vota: le decisioni non si prendono a maggioranza ma all’unanimità. Si passano ore e ore accucciati sotto un’acacia (se c’è) a cercare di convincere i riottosi. In pratica, chi possiede abilità retoriche e di comando (dimostrato nelle razzie) viene riconosciuto come leader temporaneo da consultare nei momenti critici. I ballottaggi non sono previsti: alla fine vi convincono per sfinimento.
Nel 2005-06 fui inviato nell’Ogadèn per una missione impossibile: organizzare un’associazione per i diritti umani tra i pastori somali, gente che ama il kalashnikov, crede nel jihad, infibula le bambine e ritiene che le donne abbiano un diritto fondamentale: obbedire al marito (questa fu l’unica risposta che mi diedero sul campo). Eppure, tramite la lettura della Costituzione (che altro potevo fare?) riuscii a entrare nel sistema di gestione del potere locale. Si tratta di una forma di eucrazia (“buon governo”) dove non è la quantità (i voti) a prevalere, ma la qualità delle persone. Questa si esprime soprattutto nella parola: i pastori somali mi dissero di essere guidati dalla poesia, non dalla necessità. Prendere la parola? Giusto, la democrazia, come ogni altro potere, non viene come un regalo, occorre prendersela. A chiudere il cerchio, dai somali e dai loro pastorali ho imparato che, per prendere la parola, occorre “tenere il bastone diritto”: ecco l’origine del termine “diritto”.
La scienza del peggio
Su queste istituzioni basate sulla comunità arrivò la colonizzazione (sudditi di razza inferiore), seguita dalla democratizzazione (individui tutti eguali), senza soluzione di continuità, senza forme di apprendimento, senza cambiamenti culturali, senza protezione dei valori comunitari. E fu il disastro della democrazia imposta come sistema e non come processo.
I governanti africani, poi, fanno del loro meglio per confondere le acque. Secondo Edem Kodjo, già premier togolese fino al 2006, «lo spirito africano è caratterizzato da una concezione dell’esistenza dominata dall’idea di una potenza creatrice, trascendente e contraria agli sconvolgimenti sociali. Questo riduce lo spirito d’iniziativa verso tutto ciò che è incognito». Così si spiegherebbe, divinamente, la permanenza dei democratici tiranni d’Africa. In alternativa, ci sarebbe la sempre più diffusa ideologia che «la democrazia è non-africana». La crescita economica della Cina, in assenza di diritti e reale democrazia, viene vista in Africa come un modello culturalmente ed economicamente praticabile, secondo cui: «Prima lo sviluppo, poi la democrazia». Un antropologo keniano mi ha spiegato: «Applichiamo la kakonomia, la scienza del peggio (dal greco kakós, cattivo). È una teoria della motivazione umana che cerca di spiegare perché a volte sia razionale preferire il peggio al meglio».
Così non funziona
La sovrapposizione delle democrazie di ispirazione coloniale al potere locale costituisce la base del continuo rimbalzo di responsabilità e accountability (“render conto”): la premessa è che noi occidentali ormai consideriamo la democrazia come un mero fatto di elezioni più o meno riuscite. In Africa il meccanismo “un uomo un voto” non funziona, in quanto si ragiona e si opera su basi comunitarie. Tra i Mossi mi son trovato a trattare più spesso con il nema (il re tradizionale) che con il prefetto governativo.
Si sono fatti molti tentativi di governance ibrida, dall’indirect rule dei colonialisti britannici per la giustizia di base, al Somaliland odierno dove consigli di anziani affiancano il governo centrale, mentre gli uomini d’affari provvedono alle strade e alla sicurezza (si fa per dire). A quel punto, però, non si sa mai chi debba gestire il potere spicciolo e renderne conto alla popolazione. La democrazia in stile africano, oltre a produrre tiranni a vita e miseria, ha creato in gran misura le condizioni che hanno aperto spazio ai fondamentalisti di Boko Haram (“niente libri”), o di al-Shabaab (“i giovani”, in contrasto con i decantati “anziani”). La polverizzazione del potere non ha significato democrazia: in Africa ha devastato il tessuto connettivo delle comunità.
LO STUDIO
Progressi innegabili
Solo sette dei 37 Paesi che alla fine degli anni Sessanta avevano proclamato la propria indipendenza, avevano assetti istituzionali che, seppure ancora piuttosto fragili, venivano considerati democratici dai principali indicatori utilizzati per classificare i regimi politici. Tra questi, quasi tutti (in particolare, stati come Botswana, Nigeria e Uganda) erano ex colonie britanniche che adottavano sistemi parlamentari simili a quello della ex madrepatria. A essi si affiancavano altri nove Paesi (tra cui Congo-Kinshasa, Ghana e Kenya) in cui i primi leader post-indipendenza erano saliti al potere a seguito di elezioni multipartitiche seppure in contesti che non raggiungevano gli standard minimi richiesti per poter essere definiti democrazie. Quindi poco meno della metà dei leader in carica in Africa subsahariana al momento dell’indipendenza aveva una qualche forma di legittimazione elettorale.
Ad oggi, circa il 43% degli stati africani è considerato democratico e solamente 4 Paesi – Eritrea, eSwatini, Somalia e Sudan del Sud – non tengono periodicamente elezioni multipartitiche. Tra il 1960 e il 1990 i cambiamenti di leadership di tipo elettorale sono stati un’estrema rarità. In tutto il subcontinente si sono avuti solo sei casi di successione elettorale e tre casi di alternanza al governo. A partire dagli anni Novanta, la maggior parte dei regimi politici si è aperto al multipartitismo. Sia il numero di successioni che quello di alternanze è decisamente cresciuto. Il dato sulle alternanze al governo si è ulteriormente consolidato nel decennio in corso con un “record” di 21 alternanze.
Vale la pena ricordare che l’apertura al multipartitismo non ha avuto un impatto solamente sulle dinamiche di competizione politica ma anche sui livelli di sviluppo espressi dai Paesi subsahariani. Un più ampio studio condotto sulla base dei dati dell’Africa Leadership Change Project mostra come i regimi con il maggior numero di elezioni multipartitiche e di alternanze di governo presentino tassi più alti di crescita economica, migliori condizioni di benessere per i propri cittadini, amministrazioni statali più solide e minori livelli di corruzione rispetto ai regimi meno aperti al cambiamento politico. (Tratto da Africa: quanta democrazia a sud del Sahara? di Alessandro Pellegata – Ispi)