Il Madagascar lancia un appello per salvare i suoi animali: se non si mettono in atto soluzioni immediate 120 specie di mammiferi rischiano di estinguersi, più della metà delle 219 che popolano l’isola. Se queste previsioni di rischio dovessero avverarsi, si parla inoltre di 23 milioni di anni di evoluzione andati persi, che non sono reversibili in un tempo inferiore. Secondo gli autori della ricerca, restano solo 5 anni per salvare un’isola simbolo di biodiversità. Questi numeri allarmanti sono stati elaborati dal Centro per la biodiversità naturale di Leiden, nei Paesi Bassi e pubblicati sulla rivista Nature Communication.
Il Madagascar, una delle isole più grandi del mondo e simbolo di biodiversità, rischia di perdere più della metà delle sue specie. Aldilà delle previsioni, si tratta purtroppo di un processo già in corso, molte sono le specie già estinte e altrettante quelle che si stanno decimando. Se non sono ancora scomparse è una questione di tempo, sottolinea il Guardian. Più di duemila anni fa gli esseri umani hanno cominciato a popolare l’isola e da allora alcune specie non ci esistono più. Parliamo ad esempio dei lemuri giganti o degli ippopotami nani. A rischio oggi ci sono per esempio i lemuri dalla coda ad anelli, primati caratteristici dell’isola che non si trovano in altre regioni. Nella lista del Centro per la biodiversità compaiono anche il camaleonte pantera e una vasta gamma di farfalle.
Uno studio condotto da un team di biologi e paleontologi ha analizzato le specie che popolavano l’isola all’arrivo dell’uomo e da allora si contano trenta specie estinte. Se su quelle perdute nulla si può fare, l’allarme serve per preservare le rimanenti, anche alla luce dell’enorme lasso di tempo che ci vuole per recuperare gli stessi livelli di biodiversità attraverso l’evoluzione di nuove specie sull’isola. Un tempo che non restituirebbe comunque alla natura le precedenti specie estinte, ma ne porterebbe di nuove con la stessa complessità evolutiva. “È molto di più di quello che studi precedenti hanno calcolato per altre isole – spiega all’Ansa Luis Valente, uno degli autori dello studio – come la Nuova Zelanda o i Caraibi”.